Chloe vive con sua figlia Sophia. Perso il marito gestisce da sola un motel in un posto dimenticato da dio. Per mettere insieme qualche soldino in più chiude entrambi gli occhi sulle prostitute e la droga che girano nel suo motel. Fino a quando l'assistenza sociale non gli intima di lasciare la struttura nel giro di due settimane, pena l'allontanamento della figlioletta. Nulla in confronto all'abisso in cui si ritroverà dopo l'arrivo del "corriere" Topo (Bryan Cranston).
Facendo sue le atmosfere plumbee e uggiose dello splendido noir "Un gelido inverno" di Debra Granik, lo sconosciuto Tze Chun consegna al mondo cinematografico un film di genere che è passato totalmente sottotraccia, in particolare nella nostra Italia sempre bravissima a mascherare qualsiasi cosa non dia certezze di incasso, ben supportata da un pubblico cinematograficamente tra i più abbindolabili e sprovveduti del panorama europeo. "Cold comes the night" è un buon noir vecchio stampo, che di certo non è un capolavoro, ne tantomeno uno di quei film che re-inventa il genere, ma non si capisce come mai titoli di questo tipo non riescano proprio a trovare distribuzione nel nostro paese. Basti pensare alle traversie subite dal "The road" firmato Hillcoat, che ha dovuto aspettare un anno dalla sua uscita americana (già di per se posticipata) per trovare la luce. "Troppo deprimente" dicevano.
Terminato lo sproloquio anti distribuzione italiana, si può tornare alle atmosfere decadenti dell'opera di Chun, in bilico costante tra dramma familiare, resoconto di povertà, reportage di micro-criminalità, thriller e noir. Senza voler fare il fenomeno Chun si limita ad una regia essenziale e senza sbavature, lasciando da parte sofismi vari e complicati movimenti di macchina. Il suo stile "invisibile" si adatta sulle modulazioni di un film che vive di immagini e sensazioni, per lasciare da parte le parole, anche perchè la sceneggiatura (opera anche dello stesso regista) è la parte più debole del tutto. Alcuni personaggi non sono proprio caratterizzati a dovere, alcune svolte di trama appaiono forzate o quantomeno inverosimili e lo spettatore deve accettare determinate situazioni che fanno storcere un po' il naso. Se è fin troppo calcato e drammatizzato il rapporto madre/figlia, questo serve anche al regista per giustificare la "guerriera" Chloe, pronta a combattere pur di non perdere la sua piccola.
Chun ci racconta una storia di droga e povertà nella profonda provincia americana, dove non c'è giustizia se non quella "personale", dove non c'è legge (ambigua e poi marcia la figura del poliziotto Billy), dove non c'è ricchezza. Resta la speranza di provare a voltare pagina, ma bisogna agire per farlo. Chloe agisce perchè è mossa dal nervosismo prima, dalla paura poi. In queste lande desolate dove non è mai esistito il sogno americano, Chun porta sullo schermo le ultime briciole di dignità perduta in un film che nella sua seconda parte precipita verso il thriller puro e non lesina in pugni allo stomaco e improvvisi colpi di scena.
Una piccola produzione low budget che ancor più del suo valore intrinseco, va segnalata come episodio di quel sottobosco di "genere" che ancora non si arrende e che non soccombe davanti alle ultra-produzioni che stanno portando il Cinema alla morte (o sarebbe meglio dire al suicidio...)
"Perchè lo stai facendo? Perchè è difficile trovare bravi assistenti..."
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