Sono ormai passati 4 anni da quando Larry Mullen aveva affisso un piccolo foglietto nella bacheca della scuola con scritto: “Si cercano persone per fondare una band”. Poche parole senza pretese, dalle quali nacque una delle band più importanti e influenti degli anni 80. Tra il 1976 e il 1980, i 4 giovanotti irlandesi avevano lavorato come pazzi, tra concerti e studi di registrazione, per produrre qualcosa di valido, scrivendo decine di lettere alle case discografiche. Tra i singoli iniziali avevano tirato fuori diverse cose interessanti come “Trevor” e “Street Mission” che, se lavorati a dovere, sarebbero potuti diventare belle canzoni.
Con l’esperienza accumulata in 4 anni e, felici dell’entusiasmo per il contratto con la Island Record, gli U2 compongono in pochi mesi un sorprendente album d’esordio.
Imparando gli accordi con le canzoni dei Ramones (“la ragione della nostra esistenza” come disse Bono), i 4 fanno loro la lezione del punk, ma lo addolciscono con una spruzzata di dolce melodia all’italiana, creando una sorta di soft-punk che annulla gli eccessi di fine anni 70.
Il risultato è ottimo e ciò che è triste è che molta gente sottovaluta questo disco e celebri un album come “War”, globalmente inferiore a “Boy” quanto a cura musicale – anche se qui dentro non troviamo né “Sunday Bloody Sunday”, né “New Year’s Day”.
D’altra parte, gli U2 non hanno fatto molto per fare conoscere “Boy” – come si vede nel Best 1980-1990, dove di “Boy” appare (ingiustamente) solo “I Will Follow”, che non è neanche il pezzo migliore dell’album. Di “I Will Follow” colpisce il riff (di sapore punk) posto all’inizio e nel ritornello, che però Edge riempie con i suoi tocchi delicati durante le strofe e che mostra chiaramente il distacco ideologico tra gli U2 e il movimento punk che faceva della rozzezza strumentistica il suo cavallo di battaglia.
Subito dopo “I Will Follow” si passa a “Twilight”. Il bellissimo crescendo di 33 secondi inizia con le due chitarre di Edge (una su una cassa e una sull’altra) a cui si unisce prima il basso (dopo 6 secondi), poi la grancassa della batteria (dopo 20 secondi), poi charleston e rullante, prima dell’apparire della voce di Bono che ci incanta con la sua melodia supportata alla perfezione dalle due chitarre, a cui si unisce un ritornello memorabile che ripete il titolo introdotto dalla batteria marziale di Mullen. L’assolo di Edge merita una lode a parte, anche se ancora la tecnica non è perfetta. Ascoltandolo si comprende che se il chitarrista irlandese, invece di dedicare la sua vita a studiare gli effetti di delay della chitarra, si fosse concentrato sulla tecnica, sarebbe diventato un grande chitarrista.
Si passa poi alla parte dark del disco con gli arpeggi oscuri e depressi della lunga suite “An Cat Dubh” - “Into the Heart”, a cui fa seguito la frustata sonora di “Out of Control” (il primo singolo estratto dall’album) con un Bono in gran spolvero. Strofa-ritornello, strofa-ritornello a cui segue l’assolo di Edge che prima ripete la melodia e poi diventa quasi selvaggio; poi, a 2:30, troviamo un intermezzo lento, quasi psichedelico con la voce di Bono che ripete il titolo 4 volte in un leggero crescendo prima dell’ultima furiosa strofa. Una perfetta canzone rock-arena, insieme a “The Electric Co.” (canzone amatissima dal pubblico dei primi anni, che ha esattamente la stessa struttura di “Out of Control”) con le due strofe seguite dall’assolo e dall’intermezzo lento-psichedelico.
C’è spazio per l’energico e velocissimo “Stories for Boys”, dove Mullen con il suo lavoro toglie la scena alla chitarra, prima della bellissima “Another Time, Another Place” che arriva a noi con il suo intro in dissolvenza. Edge, con i suoi 7 arpeggi di tre note, ci porta alla triste-virile melodia inventata da Bono (davvero magnifica), che dopo il cambio melodico ci riporta ai 7 arpeggi di Edge e alla seconda strofa fino al ritornello che ripete il titolo e che quasi ci mostra un Bono sconfortato. Un gran bell’assolo di Edge ci prepara ad un finale da antologia con un Bono rabbioso sorretto dalla batteria di Mullen.
Dopo una nuova parentesi dark di poco più di un minuto (“The Ocean”) dove la chitarra cromata si unisce al rumore dell’acqua, si passa al primo dei capolavori-in-delay di Edge, “A Day Without Me”. Il chitarrista la ricorda come uno dei suoi più alti risultati effettistitci, come ci racconta nel documentario “It Get Be Loud” (2009) (che potete trovare su YouTube con i sottotitoli in italiano).
Si chiude con l’acustico “Shadows and Tall Tree”, un gioiellino melodico, che però, confrontato con il resto, appare poco più di un riempitivo.
Un vero peccato non trovare qui dentro la splendida “11 O’Clock Tick-Tock”, pubblicata come singolo nel Maggio 1980 e che diventerà la canzone più amata dal loro pubblico prima della pubblicazione di “War”. La canzone annovera – secondo me – il più bel riff di Edge, supportato alla perfezione dal massiccio drumming di Mullen. Il lavoro sulle strofe è perfetto e poi l’assolo aspro completa il tutto. A onor del vero, la versione del singolo (che vi invito caldamente ad ascoltare) è un po’ lenta e con il suono un po’ sporco. La versione live di “Under a Blood Red Sky” è accelerata, e allungata di un’ulteriore strofa dopo l’assolo, e con la batteria più in evidenza. Se avessero creduto di più nella canzone e l’avessero riarrangiata in studio, oggi la troveremmo in “Boy”, e forse “Boy” sarebbe un album più conosciuto.
Una parola sulle liriche è obbligatoria. Tranne qualche episodio (“Stories for Boys”), i testi di questo disco denotano un indubbio lirismo e una sorprendente maturità – se si pensa che Bono aveva appena compiuto 20 anni. Si parla di tutto: dell’amore eterno di una madre per un figlio, un amore simile a quello di Dio per le sue creature (“I Will Follow”); del desiderio di rimanere bambino nell’animo nonostante il crescere dell’età (“Into the Heart”); del tramonto dell’adolescenza e dell’inizio dell’età adulta (“Twilight”, che significa appunto tramonto, e che annovera un verso splendido: “Nell’ombra del tramonto (dell’adolescenza) il ragazzo diventa uomo”); del pensiero della morte e del destino fuori dal nostro controllo (“Out of Control”); del suicidio visto dal punto di vista del suicida (“A Day Without Me”, dedicata a Ian Curtis, leader dei Joy Division, che si era appena tolto la vita); della donna manipolatrice (“An Cat Dubh”, espressione irlandese che significa gatta nera, e che Bono descrive come colei che vuole imporre la sua volontà al suo compagno, come una gatta che vuole impedire all’uccellino di volare in libertà); della sensazione provata dopo aver fatto (per la prima volta) l’amore con una donna che la mattina dopo non è più nel tuo letto (“Another Time, Another Place”); della bellezza dell’oceano come luogo con cui condividere i propri pensieri, dimenticando il resto del mondo (“The Ocean”); e addirittura della pratica elettroshock, molto in voga negli anni 70 (“The Electric Co.”).
Un sorprendente inizio – a testimoniare la miracolosa forza di una collaborazione che ha ci ha dato in oltre trent’anni risultati davvero splendidi.
La copertina che potete vedere non è quella europea, che raffiugura in bambino, ma quella americana. In America la foto del bambino venne letta come istigazione alla pedofilia.
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