Lasciamo per un attimo perdere le pose "salvator mundi" di Bono, i suoi molteplici impegni mondani ed umanitari, le strette di mano con il Papa e le richieste di azzeramento del debito dei paesi poveri. Lasciamo perdere tutto ciò che l'ha fatto diventare più in vista di un qualsiasi politico internazionale e più impegnato di un ricercatore scientifico. Concentriamoci sulla musica della sua band, gli U2, e in particolar modo su ciò che i ragazzi sono stati in grado di produrre appioppando al loro album più "sperimentale" di sempre il titolo "Pop".
Ricordo che, ai tempi della sua uscita, il singolo "Discotheque" mi era decisamente piaciuto. Mi piaceva l'energia della canzone, il groove, la forza che riusciva a trasmettermi. Non male. Sei anni dopo, nel 2003, mi decido a dare una chance all'album, avendolo completamente dimenticato nel frattempo. Non è nelle mie corde analizzare le intenzioni di Bono & co. al momento di produrre un album così influenzato dall'elettronica dance e da groove che citano spesso atmosfere soul e hip hop, potrebbe trattarsi di sperimentazione come di puro e semplice opportunismo commerciale, ma, in fondo, chi se ne frega? L'album è, nel suo complesso, ben riuscito, sebbene prodotto e suonato in modo eccessivo, e non presenta particolari difetti se non quello, per i puristi, di staccarsi troppo dal passato della band. Che poi, ad essere onesti, tanto profondo questo cambiamento non è: nel gospel-soul "fantascientifico" di "If God Will Send His Angels" si riconoscono gli U2 di "Unforgettable Fire", mentre pezzi allucinati in odore di psichedelia discotecara come "Last Night On Earth" (con un riff che fa pensare a "Personal Jesus" dei Depeche Mode) riportano in qualche modo ai fasti epici dei loro primi album. Semmai, il sound originale della band si è rivestito di spesse coltri di tastiere e sintetizzatori, e i suoni della chitarra sono spesso "mascherati" da distorsioni assordanti (come nel techno sfrenato e di matrice vagamente industriale di "Mofo") producendo un sound che forse definire "sperimentale" sarebbe eccessivo (il titolo dell'album è più serio di quanto non si pensi, infatti esso risulta perfettamente orecchiabile) ma che è sicuramente diverso da ciò che la band aveva prodotto fino a quel punto. La vera sorpresa dell'album, piuttosto, sta nei pezzi meno "in vista": "Miami" (detestata da molti fan della band ma non dal sottoscritto) è un trip hop che potrebbe essere uscito dal catalogo dei Massive Attack, se non fosse per quel bizzarro contrasto tra l'atmosfera minacciosa creata dal ritmo sincopato e dalle tastiere di sottofondo con il recitare quasi infantile di Bono, che racconta con ironia e spensieratezza il periodo di vacanza trascorso dalla band nella città statunitense, e nella bellissima "If You Wear That Velvet Dress", bellissimo squarcio di lounge "cosmica" e psichedelica, incentrata su un ritmo suadente e su un misterioso riff di basso mentre le tastiere accompagnano discrete la voce calda e insinuante di Bono. "Please", forse la canzone più famosa dell'album, è affascinante ma alla lunga può annoiare, mentre "Do You Feel Loved" e "Gone" appartengono al filone più trascinante e rumoroso dell'album, mutuando spunti dalla techno e dal brit-pop di metà anni '90 (in particolare "Gone"). Chiude l'album la bellezza amara e malinconica di "Wake Up Dead Man", forse la canzone del sound più tradizionale dell'album, la voce di Bono sembra quella di un ubriaco al bancone del bar intento a confessare la propria crisi esistenziale (sentimento che permea gran parte delle liriche dell'album, quello dell'incertezza, verso tutto e tutti, in particolare verso la religione). "The Playboy Mansion", blues macchiato di gospel con una ritmica hip hop (un rompicapo...), è invece una perfetta banalità.
"Pop" è semplicemente un buon album. Lo dico in modo secco, non c'è da indagare troppo sui significati del titolo nè sulle intenzioni della band, in fondo, nel mondo della musica nessuno (o quasi) fa nulla per amore all'arte. C'è orecchiabilità, ci sono suoni affascinanti, ci sono liriche talvolta poetiche talvolta semplicemente carine ma sempre meritevoli di un'attenta lettura, ci sono le atmosfere classiche degli U2 rivestite da un manto di novità. Ecco, a taluni tutto ciò potrebbe anche non bastare, ma se si pensa alla pochezza di "All That You Can't Leave Behind" e all'ancora più scialbo e inconsistente "How To Dismantle An Atomic Bomb" (forse gli U2 credono che gli album dai titolo lunghi siano automaticamente anche migliori?) c'è davvero di che esultare.
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