Doveva chiamarsi “Desert Songs” (canzoni del deserto) – un titolo, per me, molto più bello di quello che conosciamo. All’apice dell’edonismo reganiano, gli U2 decisero di “andare a cantare nel deserto”, il luogo dove si (ri)trova la purezza, simbolo della sobrietà, lontani dai grattacieli, dalle vetrine dei negozi e dal consumismo. Idea splendida, come splendida è la copertina in bianco e nero, lontanissima dai colori sgargianti anni 80.
Quando però lo misi nel CD player, dopo il primo ascolto che mi lasciò a bocca aperta, mi accorsi che, sul piano del suono, era senz’altro un passo indietro rispetto al pur non riuscitissimo “The Unforgettable Fire”. Ovviamente “Where the Streets Have No Name”, “With or Without You”, “Red Hill Mining Town” (un capolavoro che gli U2 disprezzano) mi fecero dire che gli U2 “vecchia scuola” non erano morti, ma altre canzoni (certamente bellissime) come “I Still Haven’t Found …”, “One Three Hill”, “Mothers of Disappeared” mi lasciarono un po’ di amaro in bocca, perché mi sembrarono dei geniali trucchi: pochi accordi gradevoli, una bella melodia, e qualche nota di piano o di chitarra di sottofondo. Il minimo di idee, il massimo nell’ascolto, e troppo poca di quella chitarra che avevo amato nei due dischi precedenti. Il vero seguito di “The Unforgettable Fire” (con una spruzzata di tecnologia) arriverà solo 4 anni dopo.
“Joshua” è, dal punto di vista delle singole canzoni, un disco inferiore ai due precedenti. Per confermarlo basta citare Bono, che, nel 1991, con grande sincerità, disse: “Con Achtung Baby forse perderemo i pop-kids”. Ovviamente stava parlando dei “pop-kids” guadagnati con “Joshua”.
L’ironia è che, tra il 1985 e il 1986, gli U2 scrissero due capolavori vecchio stile come “Walk to the Water” e “Spanish Eyes”, e un “capolavoro di emozione” come “Hold On to Love” - che vennero pubblicate come B-side e che sono davvero superiori alle relativamente mediocri “In God’s Country” e “Trip Through Your Wires” e, per i miei gusti, a metà delle canzoni di “Joshua”.
Non sarò certo io a disprezzare questo disco, ma è chiaro che, in alcuni episodi, è un passaggio a canzoni più ordinarie (anche se presentate alla perfezione, con una sobrietà e misura davvero artistiche, che non tutti sarebbero stati capaci di realizzare).
Inoltre, dal punto di vista dell’ascolto, “Joshua” è incredibile. Come lessi anni fa: “È un miracolo che un disco con canzoni che talvolta sono così prive di idee riesca ad essere così incantevole e unitario”. È questo miracolo che merita il 5. Ascoltato tutto intero, dà davvero l’impressione di una cosa sola, dall’organo introduttivo fino alle note di basso finali. Si ha l’impressione che gli U2, durante le registrazioni, fossero in stato di grazia, e così riuscirono a rendere oro tutto quello che toccarono.
Anni fa, un mio amico, che non ascolta nulla al di sotto dei King Crimson e dei Pink Floyd primo periodo, mi disse, esagerando un poco:
“Gli U2 sono solo un gruppetto marginale, oltre ad essere malati di gigantismo. Ma questo disco ho voluto averlo, per la sua unità e coerenza. È l’unico che ho, e avrò, degli U2”.
Da un certo punto di vista, “The Joshua Tree” è il “Sgt. Pepper” degli U2: come “Pepper”, “Joshua” riesce ad accontentare sia le bocche buone (28 milioni di copie), sia i palati fini (come il mio amico).
Il “capolavoro per tutti” degli U2, ma i capolavori autentici del gruppo sono altri.
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