Alla fine  del 1981, gli U2 hanno l’illuminazione: il rock e Cristo non sono in combutta fra loro. I loro dubbi  esistenziali sono  finiti,  e allora si rimettono al lavoro con entusiasmo.


Il primo pezzo da loro  pubblicato, dopo la risurrezione, è  “A Celebration” un ottimo pop-rock che vede la luce  nel Marzo 1982. Come lato B, viene  scelto  un  pezzo  che  entrerà  prestissimo nei  cuori e nelle orecchie dei fan: “Party  Girl”, la prima delle loro  assurde B-side. 

Dopo aver fatto il video di  “A Celebration”, gli U2 si chiudono in studio. E partoriscono il gioiello.

Gli scarafaggi, a 23 anni, pubblicavano il dilettantesco “Please, Please Me”; gli U2, alla stessa età, “War” – per  molti il loro capolavoro più autentico.  

Le prime tre canzoni sono epocali, nel senso che  sono il documento di un’epoca. Gli U2 scrissero “War” nel  1982, in  un momento davvero  particolare  per il  mondo, quando, come disse Helmuth Kohl, “eravamo ad un passo dalla terza guerra mondiale” (pericolo svanito solo con l’arrivo di Gorbaciov).   Il  pericolo,  ai tempi,  era  così  grande  (con  le testate nucleari della NATO lontane un centinaio  di chilometri dai missili dei Paesi del  Patto di Varsavia),  che  solo  così  si   può capire una canzone come  “Seconds”,  che  potrebbe  sembrare,  per  un  giovane,  un  po’   troppo  esagerata  e drammatica: “Ci vuole un secondo per dire addio,  spingere il bottone e tirare la spina”.   La paura  era  davvero  reale,  e  ne parlarono  anche i  Police  in  “Walking in Your Footsteps”  contenuta  in  “Synchronicity”  (che uscì  tre mesi dopo “War”).

La canzone che da il “la” al  disco,  è  “Sunday  Bloody  Sunday”. Questo pezzo, come quasi tutti sanno,   si riferisce alla strage di  Derry  (Nord Irlanda) del 30 Gennaio 1972, un giorno infame, in cui l'esercito inglese aprì il fuoco su un gruppo  di  ragazzi che protestavano pacificamente, uccidendo 14 persone. In realtà, questo è il pretesto  per  parlare d’altro: e cioè  della spettacolarizzazione della guerra in televisione: “Ogni giorno vedevamo in televisione immagini di morti ammazzati, e c’erano guerra in innumerevoli parti del mondo” (per esempio  lo sterminino dei soldati argentini nella guerra delle Falkland della Primavera  82). “Sunday Bloody Sunday” parla soprattutto di questo:  “And it's true we are immune. When fact is fiction and TV reality”. Il  riff semplice,  ma memorabile sin dal primo ascolto, e il lavoro di Mullen alla batteria, anch’esso memorabile, si uniscono ad un testo   semplice  ma  molto belllo e cantato con una sincerità che non può non toccarti. Il risultato lo conoscete. L’essenza del rock melodico. Inutile celebrarla.

La canzone  di maggior successo dell’album fu senz’altro  “New Year’s  Day”. Non dimenticherò mai  l’estate del   1983,  quando  veniva continuamente mandata in radio -  quasi con la stessa frequenza di  “Every Breath You Take”. Il suo testo  si   riferisce  al  sindacato  “Solidarnosc”. Nel dicembre del 1981, il primo ministro polacco, il generale Jaruzelski, aveva   fatto   arrestare Lech  Walesa (il presidente del sindacato)  e aveva  proclamato la legge marziale,  per fare in modo che nel  capodanno 82  fosse tutto normale  -  da qui l’ironia delle  parole “Nothing changes in New Year’s Day”  (nulla cambia a Capodanno,  tutto è tranquillo  a Capodanno). Sulla grandezza musicale della canzone,  una magnifica piano-guitar ballad, c’è poco da dire: la chitarra distorta (quasi  ad unire  la  rabbia  all’ironia del testo), fino all’assolo di piano malinconico, in un crescendo che arriva  al semplice, ma bellissimo  assolo  di chitarra.  “New Year’s  Day“ insegna che non bisogna saper suonare per scrivere un capolavoro, che si può essere discreti musicisti e compositori, ma bravissimi songwriters.

Quarta traccia: “Like a Song”.  Un  eccellente  pop-rock,  una frustata di energia. Il testo contiene qualche  frase fatta di troppo,  come  “too right to be wrong”  (troppo giusti per essere nel torto),  oppure  “nothing to lose, nothing to gain” (nulla da perdere, nulla da guadagnare),   “Two wrongs won't make it right” (due torti non fanno una cosa giusta),  ma la sostanza del pezzo  (non sarò mai uno che ucciderà un mio simile per amor di patria,   o  offenderò qualcuno  per  difendere  le  mie  idee  politiche  o religiose)  fa andare oltre un testo che,  in effetti,  doveva essere limato. Strano che una canzone così  “rock-arena” sia stata abbandonata dal   gruppo nei live.  Senza dubbio tra le migliori  mai scritte dagli U2.

Ma, nonostante il titolo, il disco non parla solo di guerra. Parla anche di amicizia, di speranza, di amore, e di emarginazione.

“Drowning Man”  (L’uomo che annega),  è una  stupenda  ballata  acustica.  Il testo   venne scritto per  Adam   Clayton, che in quel momento  stava vivendo  un momento di crisi, e allora Bono scrisse  dei versi  per dargli forza.  È una canzone di speranza, senza mai cadere nell’immaturità : “Le tempeste passeranno”. Il  bel  lavoro di  Edge  alla  chitarra acustica   si unisce ai magnifici  violini che - lungi dall’essere stucchevoli - riempiono di emozione.  Uno dei  capolavori più sottovalutati  degli U2.

“Surrender” è un altro capolavoro dimenticato del gruppo.  Io lo definirei  un “capolavoro annacquato”, per via del ritornello di una sola parola  (“surrender”)   ripetuto   troppe   volte  e  che dura più  delle strofe. Invece di un capolavoro di 3 minuti abbiamo un capolavoro annacquato di 5:30. La musica è tra le mie preferite, con la chitarra scintillante di Edge che si unisce alla chitarra distorta. Il testo è uno dei migliori  del disco, e parla di una ragazza che “si è  arresa”, troppo se stessa per integrarsi: ha capito di essere incapace di essere una buona moglie e madre, e ora vive ai margini osservando le ipocrisie della città.    

In  “Refugee” la protagonista  è una ragazza dallo sguardo grazioso, che vede il padre partire per la guerra, poi aspetta il suo ragazzo perché la porti in America,  la terra promessa. Un’ottima canzone - forse troppo rockeggiante per i temi trattati.

“Two Hearts Beat as One” è una canzone scritta da Bono per sua moglie. Il testo è un’ammissione della sua inadeguatezza -  che in alcuni punti  diventa davvero eccessiva.  La canzone, musicalmente, non raggiunge il   livello delle precedenti,  ma  rimane ottima,  con un ritornello memorabile. Bono l’ha  voluta  nel   “Best 1980-1990”, benché non sia un capolavoro. Secondo me, versi così intimi, meritavano una delicata  ballata.

“Red Light”   è,  nel testo,  la  sorella di  “Roxanne”  dei Police,  i quali, all’epoca, avevano preso gli  U2 sotto la loro ala,  e nell’estate 1982  li avevano voluti  come  loro gruppo di supporto.  La canzone è  il racconto di un ragazzo  che si è innamorato di una prostituta, alla quale offre il suo amore,  tentando  di convincerla a  lasciare “la vita”. Ci vuole del tempo per farla propria, ma poi te ne innamori. Magari con qualche jingle-jangle di Edge, sarebbe stata più  “graziosa”.

Al termine delle sessioni di registrazione, il disco durava 38 minuti, e qualcuno disse loro che bisognava  aggiungere un altro pezzo (perché?). Così gli U2 improvvisarono. Bono prese la Bibbia e si fermò al Salmo 40.   Nacque così "40": un incantevole capolavoro, e che per anni sarà la canzone di chiusura di tutti i concerti del gruppo.

“War”, senza essere un disco commerciale, vendette circa 11 milioni di copie, e rimase in vetta alle classifiche  inglesi per un anno intero, e contribuì a creare non solo la popolarità degli U2 in Inghilterra, ma, secondo me, a  creare maggiore rispetto degli inglesi verso gli irlandesi.  

Le toccanti immagini del Live Aid 85, a Wembley, con Bono che canta “Sunday Bloody Sunday”, mentre, tra il pubblico si vedono  sventolare  tante  bandiere  con scritto “U2”, sono la prova di quello che ho detto.  

Qualcuno ha detto che la musica affratella. In questo caso, è vero. Un motivo in più per amare questo disco.

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