Gli UB40 (Unemployemenet Benefit Form 40, scheda da compilare per avere dindini in caso di disoccupazione nel Regno Unito della fine dei ’70) sono stati un gruppo pop/reggae di cui so veramente poco. E quello che so l’ho scoperto ieri. Nel 1989 hanno dato alle stampe il loro secondo album con cover, "Labour Of Love II", di cui posso dire qualcosa in più.
Non che lo abbia analizzato a dovere, o che mi sia impegnato nella ricerca di informazioni particolareggiate. Quando si parla di un pop così essenziale, a base di percussioni poco articolate, synth, e una voce da ragazzo di strada prestata alla musica di successo, mi dà fastidio provare a scovare buoni intenti e meraviglie che in fondo non ci sono. Perché (anche) questa è musica fatta ad hoc per essere colonna sonora di momenti specifici dell’adolescenza. Te ne rendi conto quando ti trovi al tramonto in un bar di spiaggia seduto davanti a quelli che furono i tuoi compagni di classe, in un circolo di sguardi da chiodificare la pelle. Te li ricordi tutti più piccoli, seduti bene o male nelle stesse posizioni. Il contorno è identico, tranne qualche mano di vernice in più. Cambiano le storie. Ma a quel punto chissenefrega. Perché la musica (nello specifico proprio questo album) aiuta a cancellare i sovrapensieri e portare tutti sulla stessa linea d’onda, mentre l’acqua poco lontana crepita sul bagnasciuga. La gente che hai di fronte parla, e pure tanto, ma ci metti poco a ricordare quei due che si penetrano con gli occhi e che ora sono sposati con persone diverse. Limonavano duro pregni di amore quando una serata estiva di quindici anni prima, per la festa di chiusura della scuola, si ascoltava il brano “Wedding Day”. Riesci rintracciare lo sguardo indiscreto di quell’altro sempre puntato sulla parte superiore del bikini della pin-up del gruppo che, nonostante gli anni in più, ballonzola proprio come quando si danzava “Groovin’”, quella stessa sera, in cui molti hanno visto girare i primi cannoni della loro vita. Ci sono sguardi d’intesa e brindisi sullo scorrere delle note del cd che ho portato proprio io per disgelare i contatti. La musica innocente e semplice (gran merito, se pensiamo a cosa abbia detto Bruno Munari – ad esempio – riguardo alla semplicità) di un gruppo i cui componenti agli inizi non sapevano neanche suonare e pian piano hanno appreso le basi, dopo lunghe sessioni in giro per piccolo studi della città natale. Birmingham.
La poca perizia musicale si manifesta in canzoni senza grandi pretese, imperniate su poche note, ma dirette a quella parte di materia grigia che incamera le informazioni da non dare in pasto all’oblio. Un reggae (ammetto anche che non mi piace per niente il genere nelle sue manifestazioni più serie e piene di senso) da quattro spicci che però è riuscito a vendere milioni di copie e a piazzare due singoli (da questo album) nella top ten del Billboard Hot 100 dell’epoca: “Here I Am (Come And Take Me)” – brano del gospel man Al Green – e “The Way You Do The Things You Do” – pezzo dei The Tempations, band di ballerini e vocalisti di colore in auge nei ’60 -. Insomma, bianchi alla ricerca della magia afro del nero, che hanno colto nel segno sia quando hanno interpretato brani altrui, sia quando ne hanno scritti di proprio pugno.
Non mi sentirei di consigliare questo disco a nessuno se non che a quei pochi che ne hanno vissuto vicende che oggi definiremmo ambient dell’epoca, o a quelli che pensano che due cubetti di ghiaccio nella memoria possano portare a galla bivacchi intensi di quella parte di vita in crescendo, quando ti senti Dio e hai forza per trainare le sorti di una trentina di persone in giro per il luogo di nascita e per il mondo, tra gite e partenze in piccoli gruppi.
Anche io ho uno sguardo incrociato, di quelli che bruciano il pelo. Anche oggi me ne fregherei del naso che non è il massimo in quanto a setto non proprio dolce. Ma quegli occhi che sanno di salvagente e quella vivacità che avrei sposato senza pensarci mi portano ad abbassare lo sguardo e seguire la linea della spalla, poi del braccio per finire nella mano. Che ora tiene un’altra mano.
Oh Kingston Town / The place I long to be / If I had the whole world / I would give it away / Just to see / the girls at play / Ooh, ooh, ooh. C’è rimasto poco da sognare, dopo la malinconia di Kingston Town (gran bel pezzo), dal sapore di confettura di more senza zucchero. Basta voli pindarici e si ritorna alla realtà. Ma certa musica del cazzo, qualcosa di buono davvero ancora ce l’ha.
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