Parlare di evoluzione entro i canoni di un genere pragmatico e volto - con approccio squisitamente matematico - alla violenza sonora quale è il death metal non è cosa facile. Il death metal è stato inventato e sviluppato da un ristretto manipolo di band in pochi anni a cavallo fra gli ottanta e i novanta, poi è stato solo pane per gli irriducibili estimatori del genere o noia per tutti gli altri.
Pur non seguendo con particolare interesse l'universo death-metallico da diverso tempo, non mi pare che vi siano state proposte particolarmente illuminanti nel corso degli anni zero, anni che hanno visto, nel più ampio panorama del metal estremo, il concetto di evoluzione estrinsecarsi altrove. I neozelandesi Ulcerate possono a tal riguardo esser visti come una felice eccezione, anche se nel loro caso parlare di death metal risulta alquanto limitativo: ma soprattutto, perché disquisire di cose pallose innanzi alla magniloquenza di un album dalle fattezze di “The Destroyers of All”?
Giunti al terzo capitolo della loro brillante carriera, dopo un album eccezionale come era stato “Everything is Fire”, i Nostri consegnano alle stampe, nei primi istanti di questo 2011 che volge ormai al suo termine, un lavoro che segna un'ulteriore tacca nel loro misurato percorso evolutivo mirato l'esplorazione di un sound brutale che non vuole rinunciare a farsi metafora e cinica osservazione del mondo che ci attornia. Il loro messaggio continua ad essere pessimista, il titolo del loro ultimo album si riferisce a noi essere umani ed all'attitudine distruttiva nei confronti del nostro pianeta: un quadro apocalittico che mette in scena un disperato (sì, qui si parla il linguaggio della disperazione) j'accuse contro l'umanità intera diretta irrimediabilmente verso un insensato suicidio collettivo. Ma al di là delle tematiche affrontate (tutto sommato non particolarmente originali), quel che conta è che il death metal degli Ulcerate è quanto di più bello possa capitare alle nostre orecchie bramanti sonorità annichilenti ma fresche: un death metal che non rinuncia a divagazioni sludge e post-hardcore e che parte da premesse importanti quali il grind evoluto dei Napalm Death da “Enemy of the Music Business” in poi, il death metal ad altissimo tasso tecnico dei Nile (autori di quello che forse potevamo fino a ieri ritenere l'ultimo grande colpo tirato dal genere intero che è “In their Darkened Shrines”), e le atmosfere post-apocalittiche, morbosamente psichedeliche di un lavoro come “Through Silver in Blood” degli imprescindibili Neusosis (spogliati ovviamente della veste più meccanica ed elettronica).
Sempre di death metal si parla, del resto, e la lezione dei vari padrini del brutal (Incantation, Immolation, Suffocation ecc.) è ancore evidente, in particolare per il growl profondo e vischioso di Paul Kelland (molta panna in bocca, un estintore intero di panna sparato in bocca), che non lascia certo molto spazio alle variazioni, ma che finisce per risultare il compendio perfetto per una musica che trova le sue attrattive nello spietato tecnicismo con cui il massacro sonoro viene perpetrato. Ed a questo punto non è possibile tacere sul terremotante/mai domo drumming di Jamie Saint Merat, che per carisma, dinamismo e (dicamolo!) reale sensibilità progressiva si avvicina molto a nomi illustri quali Bran Dailor (Today is the Day, Mastodon) e Tony Laureano (Nile). Incredibile la sua prova dietro alle pelli ed è proprio dietro al suo martellare irrequieto e nervoso, alle sue rullate esplosive, ai suoi stacchi al fulmicotone, che si evolve un percorso ragionato, in continua mutazione che diviene l'accurata autopsia di uno stile musicale, il death metal, dal quale si era semplicemente partiti per svilupparsi a tutto tondo in un album che conta solo sette pezzi per più di cinquanta minuti che certo non presentano inutili lungaggini. Ed è tutto dire.
Si capisce quindi che il discorso progredisce oltre, proiettandosi verso una musica claustrofobica ed al contempo maestosa che trascende il semplice impatto fisico (che non manca, credetemi!) e genera immagini di una desolazione che è più vicina ai numi tutelari della vecchia scuola del metallo industriale, Godflesh in primis. E da questo punto di vista dobbiamo ringraziare senz'altro le armonie angoscianti generate dal chitarissimo dissonante e senza posa di Michael Hoggard, il cui estro ci risulta pregno di un lacerante humus esistenziale che forse è l'aspetto meno death metal del pacchetto.
Le chitarre dei primi trenta evocativi secondi dell'opener “Burning Skies” ricordano lo stridere cosmico degli archi di “Irrlicht” (Klaus Schulze), ma è solo l'illusione di un istante, la quiete prima della tempesta, poiché dall'attacco di batteria in poi l'ascoltatore sarà travolto per i successivi cinquanta minuti in un vorticoso abisso fatto di riff chirurgici e melodie dissonanti (vedasi la seconda traccia, “Dead Oceans”), tutto sparato alla velocità della luce con una maestria che è propria solo dei Grandi. Ma non mancheranno (e qui la sparo grossa) pastoni sonori da panico à la “The Silent Enigma” (Anathema), benché pur sempre tritati dalla doppia-cassa spacca tutto di Saint Merat (ancora lui, sempre lui), quasi a descrivere una materia emotiva disarticolata, priva di romanticismo, spazzata via dalla furia grind (e in questo è eloquente la seconda metà della terza traccia “Cold Becoming”). Il tutto calato in strutture complessissime che sanno ben dosare muri di suono imponenti e crescendo impetuosi: magari il tutto parte da minimali fraseggi di chitarra arpeggiata, capace di evolversi, con tipico metodo neurosiano, verso l'edificazione di monumenti sonori di una vastità scenica colossale (l'incipit di “Beneath”), o tutto più semplicemente collassa nel fragore di bordate neurotiche dove chitarre compresse e voce cavernosa franano in un abisso di distorsioni immonde (la drammatica porzione finale di “The Hollow Idols”, l'episodio più tirato del lotto, o l'apocalittico incedere di una “Omnes”, il brano più meditato e melodicamente cupo), ma la sostanza è che qui si picchia duro dall'inizio alla fine, benché tutta l'opera sia percorsa da un'ossessiva poesia della non-speranza in cui la tensione rimane sempre alta, e se vi sono delle decelerazioni ritmiche (enfatizzate da lancinanti feedback di chitarra, arpeggi distorti, l'urlo della chitarra che si moltiplica in un atroce coro da fine del mondo), esse sono solo il preludio a nuove ripartenze che mantengono l'estasi melodica solo per acuirne l'enfasi drammatica.
Come spesso capita in questi casi, i singoli episodi contano poco e l'insieme è infine superiore alla sommatoria delle parti che lo compongono, laddove la band intende lavorare il dettaglio al fine di creare un quadro complessivo in cui a primeggiare sono le sensazioni e l'atmosfera globale che si porta il messaggio che sta dietro al concept: una lotta furibonda fra uomo e pianeta, l'inconciliabilità fra le due nature, il senso di distruzione che dal loro scontro scaturisce. Ma sarebbe ingiusto non citare i dieci epici (sì, ho detto epici!) minuti della title-track posta a chiusura del tutto, dove nell'incredibile coda finale troviamo anche echi di quel post-rock che sembra essere il linguaggio essenziale su cui articolare il nuovo verbo dell'Estremo: un viaggio che si stempera in un'operazione di decostruzione sonora, progressiva riduzione/sottrazione degli elementi, operazione dolorosa volta ad innestare lucidamente quelle denotazioni che descrivono il franare, pilastro dopo pilastro, dell'intera architettura.
Monumentale.
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