Qualche click sul mouse, la pressione su tre o quattro tasti del pc, e creiamo compilation musicali. Da casa. Magari in pigiama. Compilation sterminate, centinaia di canzoni, e molte di queste nemmeno le ascolteremo mai. Così funziona OGGI.

Ieri, anzi l'altroieri, non andava così. Si usciva da casa, trepidanti, sperando ardentemente che il negoziante di fiducia di dischi non l'avesse già terminato. E quando QUEL disco c'era, ci portavamo a casa un coso rotondo, che significava 8 o 9 brani. 40-45 minuti dell'artista. Quando andava bene, 40-45 minuti di emozioni. Estrarre il disco dall'involucro...e farlo delicatamente per evitare che si rigasse...e poi poggiare la puntina del piatto sul vinile...un rito magico, entusiasmante. La curiosità di ascoltare le prime note del lato A, e capire se quelle migliaia di lire erano state spese bene.

Quando appoggiai la puntina sul vinile di "Quartet", nel tardo autunno del 1982, in realtà non sapevo nemmeno bene cosa aspettarmi dagli Ultravox. Conoscevo qualcosa, ma non abbastanza.

Fu una folgorazione, un amore adolescenziale violento e improvviso, irrazionale e prepotente come solo quegli amori sanno essere. Solo in seguito, appassionandomi alla loro musica, andai a ritroso nella loro discografia, acquistando i loro dischi precedenti.  E scoprii che quello che allora avrei catalogato senza dubbio come un 5 stelle (magari superiore) oggi è un 3 stelle.

Non è solo un discorso di gusti che cambiano, nè soltanto una maggiore maturità musicale e ahimè anagrafica. E' un discorso di emozioni, di cazzotti sullo stomaco. In questo senso, per restare nel periodo "Ure", i precedenti "Vienna" e "Rage In Eden" sono il top: sorprese a ogni nota, ogni suono, ogni sospiro. E anche il successivo "Lament", più rockeggiante ma anche con calibrate e mai invadenti influenze celtiche, merita il massimo dei voti. Viceversa, non considero nemmeno "U-Vox", l'ultimo triste lavoro prima dello scioglimento del 1987: non lo considero se non come il canto (stonato) del cigno.

Il senso di gradevolezza di "Quartet" è intatto, anche a distanza di decenni, ci mancherebbe. Pop-rock elettronico ben fatto, e NON solo techno-pop. Midge Ure in forma, musicisti coi controcazzi, melodie piacevoli e accattivanti (in qualche caso anche troppo), arrangiamenti in linea con i gusti del periodo. Appunto. Ecco il limite di Quartet. Chi predilige il periodo degli esordi (quello di John Foxx, front-man romantico e allucinato, innovativo e decadente) mal sopporta "Quartet", troppo commerciale. Ma, se è per questo, anche troppo arditamente accostato ad altra musica del periodo (ai primi e sottovalutati Spandau Ballet, e fin qui passi, ma anche ai gruppi e gruppetti dell'epoca che scalavano le classifiche con un solo azzeccato 45 giri, refrain facilotto e qualche spruzzo di elettronica).

Qui si parla invece di una band che ha saputo mirabilmente coniugare pop, brit-rock, elettronica, romantici violini (un po' il loro marchio di fabbrica) ma anche chitarre distorte, ritmi gelidi e ossessivi ma anche melodie genialmente "facili". In una parola, si parla di una grande band.

Il track-by-track del disco lo evito. A mio parere, gli episodi meglio riusciti, come spesso succede, non sono quelli più famosi (partendo da Reap The Wild Wind, per esempio, che trovo banalotta). Ma Hymn è ancora evocativa e trascinante, e la velocissima Mine For Life dal vivo si colorerà di venature heavy.

Cut And Run, tra le meno note, si caratterizza per l'inciso cantato da Midge su note alte, mentre il ritornello è modulato basso, angosciato e volutamente affannato.

Ma il pugno sullo stomaco - appunto, a proposito di emozioni- arriva all'inizio del lato B: Visions In Blue, notturna e onirica all'inizio, si snoda poi lancinante e ossessiva su un tappeto elettronico strepitoso.

Ecco, la puntina del mio vecchio piatto/giradischi (con trazione rigorosamente a cinghia) ha praticamente consumato il vinile di quel brano. E solo tempo dopo ho capito che quello che mi sembrava un disco perfetto era "solo" un buonissimo ellepì, lontano dai "5 stelle" immediatamente precedenti e dal successivo "Lament".

In definitiva Quartet, mai recensito qui e che per questo motivo ho scelto per la mia prima rece debaseriana, è un lavoro ben rappresentativo dell'epoca. Ma lo scozzesino Midge Ure, Chris Cross, Warren Cann e soprattutto il geniale Billy Currie in realtà seppero fare anche di meglio: cioè dischi che, viceversa, hanno fatto epoca.

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