Dopo un album confuso e a mio parere non del tutto riuscito come "Blood Inside", Kristoffer G. Rygg & Co. si riaffacciano sul mercato discografico con il loro album più intimo e mistico di sempre.

Oscillando elegantemente fra ambient, musica da camera, pop d'autore ed elettronica, "Shadows of the Sun" si guarda indietro (evidenti gli ammicchi alle ambientazioni minimal esplorate in lavori come "Silencing the Singing", "Silence Teaches You How to Sing" o "Lyckanthropen Themes"), per proseguire oltre e divenire qualcosa di diverso e sorprendente nella spericolata produzione discografica dei norvegesi.

Sì, a mio parere gli Ulver centrano in pieno il bersaglio: "Shadows of the Sun" si afferma fin dalle prime note come l'album più elegante, raffinato ed equilibrato che i Lupetti abbiano saputo partorire da quando hanno deciso di abbracciare il paradigma avanguardistico. Certo, l'orecchio allenato non troverà difficoltà alcuna nel capire che i Nostri non sono dei geni dell'elettronica (mamma mia come pasticciano con armonie e metriche!), ma a mio parere non bisogna cadere nell'errore di volerli giudicare in base alle prodezze dei grandi nomi dell'elettronica.

Va infatti dato atto agli Ulver di aver saputo intraprendere e portare avanti un percorso coraggioso e non di certo facile: una strada, la loro, battuta con convinzione e passione; un sentiero irto d'insidie che i Nostri sono stati in grado di percorrere in maniera brillante, dribblando da un lato ogni tentazione emulativa, e perseguendo dall'altro l'intento di definire un'identità limpida, nitida, forte. Un'identità che si è rivelata capace di sopravvivere ai drastici cambi di pelle intercorsi negli ultimi anni.

Con "Shadows of the Sun" gli Ulver si confermano musicisti intelligenti, maturi. E Garm (sì, perché per me Kristoffer G. Rygg rimane sempre e comunque il buon vecchio Garm!) un cantante capace d'incantare in ogni singolo vocalizzo. Certo, ad ogni istante pare lì lì per regalarci una stecca clamorosa, soprattutto quando decide di lanciarsi in arditi intrecci polifonici, ma ogni volta o si ferma in tempo o riesce ad acciuffare la nota giusta. Il suo canto, in "Shadows of the Sun", si pone al centro di tutto, etereo, intimistico, obliquo, minimale, enigmatico: perfettamente in linea con il mood crepuscolare dell'opera. "Shadows of the Sun" si presta infatti alle nostre orecchie come un unico flusso emozionale in cui i nove momenti si susseguono con grazia ed omogeneità.

Se il mefistofelico signor Settembrini de "La Montagna Incantata" (di Thomas Mann) individua il "lato morale" della musica nel "fatto di conferire - mediante una misurazione viva e peculiare - presenza, spirito e preziosità al fluire del tempo", sostenendo che "la musica sveglia il tempo, la musica sveglia noi al più raffinato godimento del tempo, e in quanto sveglia è morale", di certo "Shadows of the Sun" costituisce i quaranta minuti più intensi e densi di significati con cui possiamo impiegare il nostro tempo: ogni singolo istante deve essere religiosamente assaporato, non vi è dispersione in "Shadows of the Sun", generoso di trovate e sfumature, spesso apprezzabili solo dopo svariati ascolti.

Tanto che la sua brevità ci risulta direttamente proporzionale alla sua profondità, come se la musica degli Ulver si sviluppasse in verticale, in altezza o in profondità, su spazi orizzontali relativamente angusti.

Paesaggi interiori, suoni soffusi, chiaroscuri emozionali: gli Ulver sembrano con questo album riscoprire la loro terra natia, la Norvegia, e con essa la magia, la maestosità, il misticismo dei suoi paesaggi. Musica spirituale, musica per la mente e per il cuore, e scusate se oso scomodare i Popol Vuh di "Hosiannah Mantra": fraseggi di piano sospesi nel vuoto, il suono carezzevole degli archi (i Nostri si avvarranno del contributo di un ensemble da camera), i contrappunti cervellotici di un'elettronica mai invadente.

Un sound asciutto, essenziale, duttile, prosciugato da ogni futilità o ridondanza: seppur astratta, l'arte degli Ulver ci risulta definita e bilanciata nel più insignificante dettaglio, tanto che nessun dettaglio ci risulta alla fine insignificante, ma strettamente funzionale al senso d'insieme.

Musica incorporea, ascetica, a tratti sacrale. Note che si tingono della tensione di una seduta di psicoanalisi, tensione che diviene struggente poesia, smarrimento, malinconia, canto interiore, distacco, amara constatazione: un lago ghiacciato in cui specchiarsi e ritrovarsi nella solitudine, un sentiero nella notte e nelle tenebre della propria mente, nel labirinto intricato della propria anima.

"Eos", "All the Love", "Like Music" si susseguono con la naturalezza del battito del cuore, dell'approssimarsi graduale del dì alla notte, del cammino del dormiente dalla veglia al sonno e poi al sogno. "Vigil" dispensa momenti di vera elettronica, e non è un caso che in essa vi sia lo zampino del maestro Christian Fennesz (da brividi i riverberi di chitarra elettrica nel finale, che ripristinano il gelo ed al pathos naturalistico dei primi album!).

L'imprevedibile title-track si apre con droni ed oscuri vocalizzi, ma subito collassa in partiture di pianoforte che diradano immediatamente le nebbie dell'inconscio, prima che i laptop disegnino ritmiche incerte ed incespicanti. La colossale "Let the Children Go", attraversata da battiti nervosi, ci consegna invece un Garm che sembra ritrovare la vena epica sopita e latitante fin dai tempi degli Arcturus.
"My name it means nothing, and my fortune is less", e con questi versi proverbiali si materializza dal niente la "Solitude" classico di sempre dei Black Sabbath, perfetta e tempestiva con il suo passo sornione, nei suoi umori lisergici, riconoscibilissima pur nelle nuove vesti sfocate di un noir-jazz da licantropi.

Fondamentale la tromba di Mathias Eick, che s'incunea volatile ed obliqua fra le intercapedini delle ombre, scaldando in più d'una occasione le atmosfere glaciali che avvolgono l'intero album. "Funebre", "What Happened?" ripristinano gli umori intimistici che avevano aperto la seduta, conducendoci per mano alla fine di questo viaggio nelle tenebre, nelle assenze, nel vuoto, nello scompenso, oltre i fumi densi del nostro essere cosciente. Oltre il bagliore fatuo del Sole, lungo il tracciato delle sue ombre scure.

E' un vero peccato che gli Ulver siano appannaggio di pochi metallari illuminati: "Shadows of the Sun" si merita il rispetto e l'attenzione di chiunque altro sia dotato di gusto ed intelletto!

Non peccate di presunzione e soprattutto non perdeteveli anche a questo giro... sareste i peggiori per davvero...

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