Se artisticamente vi è stata mai subita un'ingiustizia è certo che Umberto Bindi ne abbia subita una bella e buona. Stiamo parlando di uno dei compositori italiani più importanti e influenti di quella che oggi, quasi con un certo disprezzo, chiamiamo musica leggera. Perché quando facciamo i ganzi con gli amici nominando i soliti nomi a proposito di scuola genovese - Faber, Paoli, Tenco - dimentichiamo sempre di parlare di un artista dalla sensibilità fine, un vero artigiano della melodia e conoscitore di musica colta. In Umberto Bindi non c'era soltanto la musica pop, difatti. Il gusto per la musica jazz, della musica classica, portano il nostro a comporre il celeberrimo Nostro Concerto, probabilmente uno dei pezzi più significativi degli anni sessanta.
L'anno successivo dalla pubblicazione di questo singolo, Umberto si presenta al Festival di Sanremo, edizione 1961. Il brano che porta si intitola Non mi dire chi sei, una delicata canzone d'amore, in piena sintonia con lo stile dell'artista. Durante la sua performance esibisce con fierezza al dito mignolo un anello che sposta l'attenzione più sulla vita privata di Umberto che sull'effettiva qualità del brano e della sua interpretazione. Quell'anello, infatti, sancisce la relazione sentimentale di Umberto con un altro uomo, fatto che per l'Italia bigotta del tempo è visto come una nefandezza. Tanto che, da questa esibizione in avanti, il nostro verrà tenuto lontano da qualsiasi etichetta discografica, quasi avesse la peste bubbonica o, se volete, il Coronavirus.
Ostracizzato dal mondo della musica per ben 35 anni (trentacinque anni), grazie al supporto di Renato Zero ed Ernesto Bassignano, paroliere, Umberto Bindi torna alla ribalta. Lo fa esattamente ritornando sul luogo del delitto: nel 1996, dopo aver presentato a Baudo e alla kermesse sanremese il brano Letti, viene finalmente accolto al festival della canzone italiana. Ingiustamente, finisce ultimo in graduatoria. Ad accompagnarlo vocalmente, sia sul palco che in studio di registrazione, ci sono i New Trolls, gruppo rock orchestrale e progressive degli anni settanta ormai dedito a buona musica pop. Nello stesso anno esce così il disco Di coraggio non si muore, con la collaborazione dei due sopracitati che hanno permesso a Umberto di pubblicare nuovamente un album di inediti dopo molto, troppo tempo.
Il risultato è una perla di sensibile raffinatezza artistica e cantautorale. Le interpretazioni di Umberto sono davvero sentite ed emozionanti e la passione pare esplodere finalmente tra le note delicate e ricercate dell’autore. Più di tutte, a mio avviso, è la canzone Pianoforte ad esprimere al meglio l’anima fragile di Umberto: pezzo dedicato allo strumento musicale, appunto, il pianoforte, con una potente allegoria alla vita dello stesso Bindi, in cui i tasti neri si alternano a quelli bianchi, ovvero quelli della cosiddetta “normalità” alla quale l’uomo Umberto Bindi non si è mai sentito di aderire. Oltre alla già citata Letti, menziono la bellissima Chiara, altro brano in cui voce e orchestra ne fanno un’esibizione intensa. Comunque l’invito è quello di scoprirlo tutto questo splendido album, capace di placare il rumore assordante che ci propinano radio e piattaforme mainstream quotidianamente.
Pochi anni più tardi il nostro ci lascerà, e non nelle condizioni migliori immaginabili. Povero e malato, la sua morte passa in sordina così come la sua vita negli ultimi anni. Sta a noi e alla nostra memoria tributare e far conoscere ai posteri la straordinaria sensibilità artistica di Umberto Bindi, perché la sua fiamma possa ardere per sempre e possa così ricevere quella gratitudine e quella piccola parte di giustizia che gli fu relegata in vita.
“Io sono diverso perché vivo nelle favole
e metto in musica la forma delle nuvole
Che c'è di male? Son le mie sere!”
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