Nel 1991 Jay Farrar e Jeff Tweedy non avevano ancora imparato a vestirsi alla moda, o a posare come si deve nelle foto promozionali, insomma a stare al mondo seguendo il vento che tirava invece forte in altre direzioni. C'erano in giro torme di ragazzi-quasi-adulti che avevano abbracciato in pieno la loro sadness mentre qualcun altro aveva provveduto a trasfigurarla in coolness, ma questa storia l'abbiamo raccontata tante volte, e non mi sembra il caso di ripeterla qui. Quello che conta sono le facce sfatte, quegli sguardi spaesati e quei vestiti lisi (non per moda, ma per necessità) che non puoi fare a meno di notare quando ti capita una loro foto d'epoca sotto gli occhi. Erano fuori dal tempo, sbucati da chissà dove. Ma le loro espressioni sbagliate nel momento sbagliato non denotavano poca consapevolezza di dove fossero o di quello che stavano facendo, tutt'altro, c'era nei loro occhi una totale devozione verso la vita che avevano scelto e la musica che inevitabile ne sarebbe seguita. D'altronde, quando ti scegli dei santini tanto precisi quanto assolutamente inutili in quell'America, sai già da che parte della strada proseguirai il tuo cammino.
Naturale quindi che anche il loro secondo disco fosse un peregrinare solitario incurante di quanto succedeva intorno. Gli Uncle Tupelo avevano sviluppato uno stile peculiare fin dall'esordio: c'è chi ne ha scritto come "Gram Parsons-meets-Minutemen", e se siete quei tipi che hanno bisogno di pochi punti di riferimento per inquadrare un gruppo, beh eccovi serviti. Qualche dubbio ancora? La sferzante, incazzata D.Boon, personale dichiarazione d'amore tutta stop and go e chitarre acide, presente su questo disco, dovrebbe convincere anche i più scettici. E poi, chi altro avrebbe intitolato una canzone a un chitarrista sconosciuto morto sette anni prima in un furgone scassato nel deserto dell'Arizona?
Ma si sa, Jay e Jeff erano dei tipi onesti, e soprattutto erano grandi amici, praticamente fratelli. Cresciuti insieme nella Belleville degli anni 70, con il solo desiderio di fuggire via. Possiamo sentirli qui, come mai prima e già per l'ultima volta, incrociare vite, chitarre e voci dentro canzoni che sono momenti di confessione spirituale per lavare l'anima, con la voce che viene su graffiando e sembra non bastare mai per dire quello che si ha da dire. Nei loro momenti migliori, quando la catarsi tra studio e palcoscenico raggiungeva l'apice, questi tre ragazzi (c'era anche Mike Heidorn) riuscivano a sublimare quella sorta di esercizio country, ciò che poteva sembrare a prima vista la loro musica - per quanto intarsiata dall'inquieta elettricità che animava le loro vite - attraverso l'immersione totale nei sentimenti più puri che solo un ragazzo di 20, 25 anni può conoscere, oggi come allora. True to life, davvero: a posteriori è facile capire perché quella magnifica avventura non sarebbe potuta continuare a lungo.
Eppure, in questo album il senso delle dinamiche, quell'alternarsi di piano e forte così difficile da padroneggiare, frutto di ore in sala prove e ancora di più a trangugiare birre da due soldi su palchi malfamati, beh questa compattezza (se parlassimo di un combo jazz la definiremmo interplay) è presente più che mai. Ne è manifesto l'attacco fulminante di Gun, ma anche un pezzo come Fall Down Easy, vertice emozionale del disco, ballata elettrica prima, dolci mandolini e banjo poi, catastrofe tonante nel finale - la batteria di Mike Heidorn mai così potente, mai così disperata, quasi presagisse la fine che stava per arrivare. La dicotomia è comunque già ben evidente, Jay veste i panni del leader e riesce a dare un volto a quel malessere generazionale che stava soffocando la X Generation appena nata eppure già vecchia, e lo fa però illuminandone il suo lato meno eroico: storie di solitudine e fuga, o magari di compagnie che sono le solite, alcol e cocaina, raccontate con protagonisti che spesso giovani non sono e non lo sono mai stati. Solo lui avrebbe potuto cantare "che cosa ha fatto per te in cinquant'anni questa vita in questa città", con quella voce che più che a un 26enne diresti appartenere a un vecchio folksinger di almeno 30 anni di vita in più. Jeff invece canta di dolori e inquietudini personali che a volte sfiorano il solipsistico ("questa non è scritta per nessuno in particolare, riguarda me", ringhia in D.Boon), ma quando riesce ad elevarli a riflessione universale, come in If That's Alright - che fa il paio con l'ugualmente dolcissima Still Be Around del fratellone - ecco che abbiamo gli Uncle Tupelo attraversati da quel fluido mistico che univa le esistenze di Gene Clark, Gram Parsons e Johnny Cash. Certo l'obliquo equilibrismo di Tweedy alla lunga sfigura con la presenza schiacciante di Farrar, anche se qui l'opener dell'album è sua, ma nel complesso erano in pochi quelli che all'epoca sarebbero riusciti a prevedere l'oblio in cui è caduto oggi Jay e il successo - commerciale, di critiche - che negli anni giustamente ha raggiunto Jeff. Per dire, nella pagina Wiki di Belleville, al primo posto tra le "notable people" trovate Jeff Tweedy, non certo Jay Farrar. Ovvio.
A metà disco, altre due chicche: Punch Drunk, un trio assatanato che assorbe completamente la lezione dei Minutemen e anticipa di qualche anno il mathrock suonando sopra nella polvere di un vagone ferroviario in mezzo al deserto dell'Arizona, e l'impetuosa Postcard, riscrittura di Graveyard Shift che si snoda tra hard rock d'assalto, chitarre rubate a una session di "Zuma" e celestiali armonie à-la Flying Burrito Brothers.
Al disco partecipa anche Gary Louris dei Jayhawks in un paio di brani, altro vecchio amico della band. E nelle bonus dell'edizione 2003 spunta, un po' a sorpresa, la cover di I Wanna Destroy You dei Soft Boys: l'unicità degli Uncle Tupelo non risiedeva evidentemente solo in quella originalissima miscela di country modificato, ma in fin dei conti tutto torna.
Non l'album migliore, per quello rivolgetevi al minimalismo acustico di "March 16-20,1992" o all'epicità rurale di "Anodyne"; sicuramente il più importante per questo misconosciuto quanto leggendario trio.
«And the bar clock says three a.m
Fallout shelter sign above the door
In other words, don't come here anymore»
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