A poche settimane dal loro scioglimento e dalla fine di un tour a dir poco “difficile”, gli Uncle Tupelo suonano per tre serate consecutive nel Northwest, non lontano da casa loro. Il locale è il mitico “Lounge AX” di Chicago, la windy city, dove gli inverni sono gelidi e non se ne vanno mai prima di maggio. Il 1994 non fa eccezione. La band, leader riconosciuta del movimento alternative country, ora riempe con facilità i club nelle principali città d'America e in Europa e non solo più le palestre delle città universitarie e le pizzerie della sconfinata provincia. I tempi ora sembrano maturi per un’affermazione su larga scala degli Uncle Tupelo, ma il tempo ci racconta che non sarà così. Il clima da “guerra fredda” tra Jay Tweedy e Jeff Farrar, ai ferri corti da almeno un anno per mille motivi, hanno già segnato il destino della band, paradossalmente proprio al culmine della loro parabola creativa e musicale. Il doppio vinile “Live At Lounge Ax / March 24, 1994” lo testimonia senza mezzi termini. E’ un grande album dal vivo, “di quelli che non se ne fanno più” e che se si fanno, aggiungo io, nessuno se li caga purtroppo…
Il terzetto classico (Farrar-Tweedy-Coomer) è integrato sul palco dal polistrumentista Max Johnston (fratello di Michelle Shocked) e dal futuro Wilco, John Stirrat. Il suono è dunque più ricco di sfumature rispetto ai live degli anni precedenti, con inserti di fiddle, di violino e di mandolino. La stampa è finalmente curiosa. Gli Uncle Tupelo sono sulla bocca di tutti, hanno saputo creare un genere, attualizzando la lezione di band come Jason & the Scorchers e Lone Justice, costruendo un suono ancora più originale, debitore ai Clash esattamente quanto ad Hank Williams. Il loro ultimo album, “Anodyne”, il primo su major, è forse il migliore di sempre per la critica e per i fans, sicuramente il più maturo.
Alla prova dal vivo la band di Belleville non tradisce. Ognuno dei due leader snocciola le proprie canzoni con passione ed orgoglio ed è una vera e propria battaglia a colpi di chitarra dove, metaforicamente, D.Boon prende a bastonate quel pigrone di Gram Parsons. Ci sono parecchi filmati disponibili su YouTube. Gli sguardi di Jay e Jeff non si incrociano mai e la tensione tra gli (ex) amici di una vita è palpabile come lo sarebbero le tette di Wanda Nara, Icardi permettendo. Si vede chiaramente che i ragazzi non si sopportano più. Nessuno trova il tempo per una parola o per un sorriso, si suona e basta. Il matrimonio tra lo spirito folk struggente di Jay Farrar con l'anima punk-rock di Jeff Tweedy è agli sgoccioli e quelli sono gli ultimi impegni da osservare prima dell’addio. Jay ha già preso la sua decisione e nulla gli farà cambiare idea. Nella sua laconica biografia, racconta che Jeff ha provato addirittura a fargli saltare la ragazza l’anno prima, mentre lui guidava il van della band verso nessun posto, l'altro stava seduto dietro a fare il cascamorto…Jeff negherà ma l’incazzatura ed il rancore di Jay rimarranno per decenni.
Il locale è strapieno e ci sono persone da parete a parete dell’enorme stanzone che sembra di essere da Ikea la domenica pomeriggio. I fans sono in adorazione incondizionata, nessun rompicoglioni che sbraita con la birra in mano che vuol sentire la versione punk di “Oh Susanna”. E’ un pubblico attento e devoto, quasi intimorito dalla statura raggiunta dalla band. Il tempo di attaccare gli spinotti agli ampli e via con il celebre mix di punk e radici che influenzerà per sempre la musica americana negli anni a venire. I riff di chitarra uncinati di Jay Farrar risuonano in apertura con “Chickamauga" ed è subito un grande brivido. La sua band o almeno quella che lui aveva sempre pensato potesse essere la “sua band” doveva suonare così, sporca e rutilante, molto poco pop. I successivi Son Volt, in maniera un pò ripetitiva, lo dimostreranno. Ma dall’altra parte del palco c’è Jeff Tweedy, cresciuto a dismisura come compositore ed interprete. Ed è anche molto più comunicativo ed istrionico di Jay Farrar, piace e si fa piacere. Ha un bagaglio ingombrante di fantastiche canzoni che stanno diventando, giorno dopo giorno, più importanti ed ispirate di quelle di Farrar. E questo Jay non sembra in grado di accettarlo. “Watch me fall” irrompe stupenda e accende i cuori. Jeff fa subito capire di non essere una comparsa ma il co-protagonista della serata. Il concerto procede con tutti quei pezzi che ormai vanno considerati “classici”. Jay si vede costretto spesso a doppiare l’ex-amico al controcanto e sembra farlo mal volentieri. Anche quando deve fare gli assoli di solista sui bridge delle canzoni di Jeff sembra che gli abbiano messo un dito nel posteriore. Ma sa che lo deve fare. Non una parola tra una canzone ed un’altra, solo musica. Ai ragazzi piace sicuramente suonare veloce dal vivo, non è un mistero e il disco corre via rapido come le canzoni. I Tupelos guardano come fonte di ispirazione al fragore degli Husker Du ed al suono di Minneapolis perché “quella è la loro terra”, avrebbe detto un certo Woody Guthrie. Ma anche le loro canzoni più lente ed acustiche, quelle più rootsy, risultano intrise di una sorta di frenetica inerzia che non ne diminuisce mai la forza propulsiva che viene dal punk e di lì a poco confluirà nel grunge. In questo senso, “Satan, Your Kingdom Must Come Down” è semplicemente eccezionale, un capolavoro di traditional punk da tramandare ai posteri. Le influenze country e rock si scontrano (s)comodamente l'una contro l'altra in brani come "Acuff-Rose" dal sapore guitar-folk o in "We've Been Had”, caricata elettricamente e piena di feedback, una delle poche canzoni cantate coralmente a due voci da Jeff e Jay.
In realtà il doppio disco è talmente pieno di pezzi fantastici che bisognerebbe citarli tutti. “The Long Cut” di Tweedy ad esempio, in versione definitiva e devastante, colpisce dritto al cuore. E’ la canzone che qualche giorno prima la casa discografica ha scelto inaspettatamente per la comparsata degli UT al Late Night Show Show di Conan O'Brien, in diretta nazionale. A Jay girano i coglioni a mulinello dato che è scritta e cantata da Tweedy e nel filmato su Youtube non si può fare a meno di notare la sua gioia sfrenata. Il concerto prosegue con una intensissima “Grindstone” in versione “stop & go”. Si tratta di quella meraviglia di canzone di Jay che apriva l’incredibile “March 16-20, 1992” prodotto da Peter Buck dei REM, un disco che riascoltato oggi, manda a casa a schiaffoni tutte le band che scimmiottano la tradizione, dai Mumford & Sons ai Lumineers e amici vari. A volte il ritmo rallenta ed emergono perle acustiche come “New Madrid” o “Anodyne”. Altre volte la band si fa minacciosa e disperata come solo un gruppo del Midwest, parente stretto del punk di matrice Homestead/Reflex, è in grado di fare. Come in vecchi cavalli di battaglia come “Postcard” e “Gun” o nella conclusiva “Whiskey Bottle”, ispirata alla vita in una piccola città vissuta con quella voglia di scappare lontano da quell’America sbiadita, dove i sogni finiscono inevitabilmente in una bottiglia. C’è ancora spazio in chiusura per un tributo ai Creedence con la cover di “Effigy” e poi tutti a nanna senza un saluto, nel classico stile di Farrar. Pensate che qualche anno fa è venuto a suonare qui a Torino, lui solo con la sua chitarra, sembrava un Hobo scappato da una pagina di Kerouac. In un locale che definire tale era già un complimento, Jay se ne stava seduto in un angolo in castigo, con la sua camicia a scacchi e la frangetta sugli occhi, in attesa che il posto si riempisse di quelle 30 persone 30 che avevano avuto il coraggio di pagare il biglietto. L’ho avvicinato con i miei dischetti in mano da firmare e lui scazzatissimo me li ha scarabocchiati con le sue iniziali, manco fossero dei compiti da correggere. “Did you like our town Jay?” “Not so much…”. Fine delle effusioni. Empatia a tonnellate, questo è il personaggio, prendere o lasciare…
Che dire ancora del disco? “Live At Lounge Ax / March 24, 1994” è uno splendido viaggio nella memoria per coloro che hanno amato la band ed una potenziale rivelazione per chi non li ha mai conosciuti. A costoro, una penitenza inflessibile che prevede l’ascolto ripetuto del nuovo cd di Achille Lauro, in ginocchio sui ceci.... Purtroppo il vinile è edito in una striminzita tiratura limitata, uscito per il Record Store Day del 2020. Solo 2.500 inarrivabili copie in vinile, neanche si trattasse di un paio di schifosissime sneakers della LIDL, e per giunta distribuite quasi tutte in negli States. E’ un delitto, ma il mercato oggi va così. Siamo sommersi da musica di merda di rapper farlocchi mentre un disco così non lo ascolterà nessuno. Eppure rappresenta un’istantanea fedele di un periodo irripetibile. Fuori dagli schemi stereotipati di internet, fotografa una band alla ricerca di una via d’uscita da un futuro già scritto. Gli Uncle Tupelo tracceranno una strada nuova sulla cartina ingiallita degli States, una strada che forse c’è sempre stata ma nessuno sembrava più interessato a percorrere. La loro musica (ri)coniugherà senza compromessi melodia e tradizioni, in una nazione che, musicalmente, stava perdendo la propria identità, esattamente come sta facendo ora. Suonando canzoni di orgoglio, che la gente non poteva amare semplicemente, ma in cui alla fine credeva profondamente, gli Uncle Tupelo restituiranno onestà ed integrità ad una scena uscita veramente a pezzi dagli anni 80. Sono passati 30 anni ma sembra ieri. Ora ci sono Blanco e Mamhood ospiti dalla Defilippis, scusate ma devo andare…
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