Quella di "Disambguation" si presentava per gli Underoath come una vera e propria prova del nove, il primo album senza il loro membro storico Aaron Gillespie, che tra parentesi per me non è mai stato fondamentale, ma questo è un altro discorso. La prova ve lo dico subito è pienamente superata, ma ahimè non siamo sullo stesso livello dell'epico Define the Great Line, nè tanto meno di The Changing of Times (sigh), ma questo era prevedibile.

Li avevamo lasciati con il mastodontico Lost In The Sound Of Separation, li ritroviamo con un lavoro ancora più imponente, colossale, per certi versi epico. La voce di Spencer è ora ancor più dominante, lo spazio per la melodia è ancora più esiguo e la componente elettronica di accompagnamento è sempre geniale. Un pregio, ma anche una pecca, è il fatto che l'album appare come un unico grosso monolite, impossibile da spezzare e sviscerare. Nonostante numerosi ascolti non si riesce ancora del tutto a distinguere le singole canzoni, ma se si guarda al platter nella sua interezza non si può che levarsi il cappello; i pochi e studiati breakdown sono sempre devastanti accostabile agli altrii, la sezione ritmica, affidata ora a Daniel Davison (ex Norma Jean), è possente, martellante.

Gli Underoath emopop e ciuffettari di metà anni duemila sono definitivamente morti, la band è sempre più consapevole delle proprie sconfinate capacità e, ci scommetto, non faranno più passi falsi.

Un lavoro Disambiguation accostabile, se posso permettermi, a quello delle bandiere del christian metalcore, gli Zao, con tutti i se e i ma del caso.

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