Disco evento nella comunità noise psichedelica di Detroit nel Michigan: una collaborazione inedita tra Universal Indians e Wolf Eyes. Va detto chiaramente che per quanto questo sia il primo LP oggetto di questa partnership inedita, i due progetti si sono in verità più volte incrociati nel corso degli anni: Johnny "Inzane" Olson che a inizio anni novanta fondò gli Universal Indians con Bryan Ramirez (oggi sostituito da Aaron Dilloway) e Gretchen Gonzales, è uno dei collaboratori anche di Wolf Eyes di Nate Young, così come lo è stato lo stesso Aaron Dilloway. Un percorso comune condiviso e dove chiaramente ciascuno ha a sua volte influenzato l'altro con Nate Young che in particolare si è distinto per essere un artista incredibilmente prolifico e duttile, tanto che sinceramente fare il conto delle sue pubblicazioni di ogni tipo negli ultimi anni è quasi impossibile.
Il progetto comune prende come compromesso il nome Universal Eyes, il disco esce su quella branca della Warp denominata Lower Floor Music e anche questa volta "brand" marcato Wolf Eyes, si intitola "Four Variations on ‘Artificial Society’" ed è stato registrato la scorsa primavera nella periferia nord di Detroit in uno studio domestico, dove i quattro si sono avvalsi della partnership di Warren Defever (His Name Is Alive). C'è quindi parecchio materiale interessante alla base di questo album che si può considerare quindi una specie di meeting tra vecchi amici e compagni di avventure e che chiaramente diviene poi l'occasoine per una vera e propria festa rituale. Le quattro "varianze" sono in verità cinque tracce che suonano come un blues insano: parlare di avant-jazz, sperimentalismo, suoni da giungla urbana ha sicuramente senso, ma la verità è che queste cinque lunghe ossessioni post-nucleari e visioni apocalittiche, sono composizioni claustrofobiche sotto le quali si intravedono strutture sotterranee, come se ci fosse una Detroit sotto la città di Detroit e dove la eco dei blues del delta degli immigrati afro-americani nelle grandi fabbriche del Michigan, dell'Illinois entra in una nuova fase decisamente "post".
Peccato solo che tuttavia, nonostante la devozione a quella componente afro-americana che poi sta alla base di tutto e pure di tempi apparentemente privi di forma definita come quelli di questo disco, manifesti avant-art espressionisti e di contro-cultura di questo tipo continuino a essere per lo più oggetto di interesse presso i bianchi e non esperienze condivise dalla intera popolazione degli Stati Uniti d'America e segno evidente che c'è una grande spaccatura che fa fatica a essere sanata. Questa ferita continua a sanguinare e quanto album come questi possano contribuire a cicatrizzarla non lo so. Poco. Forse niente. Probabilmente può fare di più la cultura popolare, quando e dove questa non diviene spazzatura e propaganda all'inutile. Più Lonnie Holley che Andy Warhol quindi. La sua arte ha molto in comune con questo tipo di forme di espressione, se solo fosse popolare quanto qualche flaccido culo bianco della scena alternative newyorkese ne gioverebbe la comunità afro-americana e pure tutti noi, perché magari ci ritroveremmo veramente al cospetto di qualche cosa di nuovo. Per ora, beccatevi questo disco comunque, nel segno di una continuità dei due progetti fondanti e di esperienze sonore che vanno indietro nel tempo più di quanto si possa pensare.
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