Probabilmente stiamo parlando della band più stupida e gretta mai germogliata in terra svedese. E questo non lo dico per spregiare gratuitamente la band che il buon Johnny Hedlund porta onestamente avanti dal lontano 1989 (tanto che non possiamo nemmeno accusare lo sgradevole energumeno di opportunismo, né di esser saltato all'ultimo minuto sul carrozzone del death metal, che in verità all'epoca muoveva ancora i primi passi).
No, dico questo perché ho un alto concetto dell'estremo metallo svedese, che, in qualsiasi campo si sia cimentato (dal death al doom, al gothic, al black, fino al prog e derivati), si è mosso con onore, sfornando band e progetti sempre intelligenti, spesso un passo avanti a molti dei colleghi europei ed americani.
Gli Unleashed, invece, per quanto storici, per quanto inossidabili, rimangono dei sempliciotti, portatori senz'altro di un loro modo di vedere il death metal, punto di vista che probabilmente ha lasciato anche una traccia, seppur tenue, nel vasto panorama metallico degli ultimi anni (mi vengono in mente formazioni come i conterranei Amon Amarth). Nonostante tutto questo, gli Unleashed rimangono degli onesti musicisti, senza infamia e senza lode, come ce ne sono tanti, tantissimi altri. Ma come per magia, come sovente nel metal si verifica, una band, per quanto mediocre, che continua negli anni a sfornare album che non si scostano di una virgola dai loro standard, che tira avanti la carretta per un paio di decenni, solo per il fatto di resistere, finisce per acquisire una sorta di status di rispetto ed onorabilità, un premio di anzianità potremmo dire, che val bene una popolarità spesso immeritata, a prescindere dalla qualità della musica proposta.
Gli Unleashed non si sottraggono ovviamente alla regola: gli Unleashed non hanno mai spaccato veramente, non hanno mai partorito l'Album della Vita, non hanno mai avuto la svoltona che li ha lanciati agli onori della cronaca (che so, la svolta techno per cui val la pena chiacchierare dieci minuti). No, gli Unleashed continuano la loro marcia inarrestabile, non indietreggiano di un millimetro, cavalcano il loro amore per il Nord (generalmente appannaggio dei colleghi blackster), raccogliendo forse adesso un proficuo raccolto per il solo fatto di ritrovarsi (e questo non per opportunismo, lo ripetiamo) ad essere sospinti dall'incontenibile foga vichinghesca/pseudo-fantasy sempre più in voga fra le nuove generazioni.
L'esordio del 1991, “Where No Life Dwells”, è stato un album davvero buono, per la furibonda epicità che lo pervadeva, seppur la band non presentasse qualità eccelse, sia in ambito tecnico che compositivo. Da quel momento in poi non ci sarà da aspettarsi grandi sorprese da Hedlund & soci: il loro percorso si raffinerà nel tempo, acquisteranno coesione i quattro ragazzuoli, sapranno focalizzare gli intenti ed individuare di volta in volta nuove soluzioni, aprendosi progressivamente alla melodia, ma sempre rimanendo saldamente posizionati sul peculiare death metal al vetriolo degli esordi, guardando indietro, piuttosto, mai dimentichi dell'antico thrash teutonico e delle lezioni del metal classico (Black Sabbath, Judas Priest e Venom in primis) ed di un certo epic-metal d'annata, quello più ruvido di marca Manowar e Manilla Road.
“Across the Open Sea” (un titolo, un programma!) è il loro terzo album, esce nel 1993, seguendo di un solo anno il pur sempre buono atto secondo “Shadows in the Deep”. Come i suoi immediati predecessori, anche “Across the Open Sea” è un buon album: orecchiabile, di scorrevole ascolto, un album che all'epoca ebbe anche una certa risonanza, tanto che mi precipitai all'acquisto immediato, rimanendo tuttavia un tantino deluso, in quanto abituato a ben altri livelli di qualità (quelli a cui sapeva assestarsi il death metal in quegli anni). E' forse con il trascorrere nel tempo che un album del genere si può rivalutare, come dimostrazione di potenza coniugata con una certa dose di epicità, ingenua rozzezza e glaciale miseria.
L'opera possiede infatti il suo mordente, gira bene nello stereo e presenta tutti quegli ingredienti che la rendono una pietanza appetibile e mai indigesta. In appena 37 minuti (durata ideale per un album death metal senza fronzoli) abbiamo un'opener con i contro-coglioni (“To Asgaard We Fly”), il pezzo doomeggiante stra-epico che fa tanto atmosfera (“Open Wide)”, la parentesi acustica (la suggestiva title-track), un paio di brani assassini (“I Am God” e “Execute Them All”), assalti sonori dall'invidiabile groove (“The One Insane”), la classica cover a cui non si può mai dir di no (la priestiana “Breaking the Law”) e perfino un pezzo pseudo-gotico (la claudicante “Captured”, influenzata in un certo qual modo dai Tiamat del conterraneo, amico e quasi omonimo Johan Hedlund).
I brani si muovono su strutture semplici (cantato/ritornello-cantato/ritornello ecc.), senza mai premere sull'acceleratore, senza mai indugiare in virtuosismi, senza mai perdersi in spericolati cambi di tempo; dilagano in uno spazio limitato fra tre e quattro minuti, in modo da non annoiare come il metal più diretto esige. Suoni sporchi ma puliti, un growl catarroso il giusto, chitarre sfrigolanti che mutano piacevolmente da passaggi zanzarosi a stacconi thrash ed epiche cavalcate; una sezione ritmica possente, ma mai veramente potente (insomma, gli Slayer di Lombardo sono un'altra cosa).
A completare il quadro, un'azzeccata copertina raffigurante un indistruttibile drakkar contorto fra le onde e gli spruzzi di un mare inferocito: felice metafora di quello che la musica degli Unleashed in definitiva si presta ad essere per le nostre orecchie!
I testi, ahimè, toccano una puerilità inaudita, non aiutati certo da un inglese da seconda media (e si pensi ai testi delle già citate “I Am God” e “The One Insane”), ma per lo meno hanno il pregio di non ricadere nel tipico satanismo di sempre, virando piuttosto verso un sano anti-cristianesimo che va a braccetto allegramente con miti e leggende del glorioso nord che fu.
Del resto, che cazzo pretendiamo? “A me me piace sona' sta robba”, potrebbe risponderci con la bavetta sul mento il buon ed insugato Hedlund, che tutto possiamo criticargli, ma non di certo che non porti avanti la sua crociata con passione. Del resto, gli Unleashed rimangono una macchina da guerra dal vivo, loro vera dimensione, vero habitat naturale; per questo consiglio vivamente, per chi volesse a loro avvicinarsi, il formidabile “Live in Vienna '93”, gustoso concertazzo che funge da compendio dei primi due album della loro carriera, forse quanto di meglio abbiano combinato i Nostri nella loro vita: quei bei concertazzi genuini genuini di una volta, registrati a presa diretta, senza tanti fronzoli, e che mostrano una band muscolosa e determinata a perseguire a denti stretti i propri intenti.
Alla fine della fiera, pertanto, non resta che concludere che gli sforzi della formazione svedese meritano comunque rispetto; non di certo che ingente parte dei nostri risparmi si riversino nell'impresa di possedere la loro intera discografia, appannaggio dei soli fan irriducibili...
To Asgaard they fly... chi li ama li segua...
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