Dover tenere in piedi un gruppo come gli Uriah Heep non deve essere la cosa più facile del mondo: un numero infinito di cambi di formazione, tour mondiali come se piovesse, un repertorio sconfinato da imparare a memoria e quaranta e passa anni di storia del rock'n'roll con cui doversi ogni volta confrontare. Mica male come rogna. Di scocciature ne sa qualcosa il buon Mick Box, inossidabile chitarrista del combo british fin dagli albori, uno che, francamente, pare che abbia preso il suonare come una missione. Ed infatti proprio la pazienza di un santo deve essere stata necessaria per stare dietro ai mille casini degli Uriah Heep di inizio anni Ottanta.


Il periodo con John Lawton alla voce, che aveva visto gli inglesi abbandonare quel suono hard progressive che li aveva resi celebri, si era concluso da un pezzo, era stata messa in piedi una nuova formazione ma il risultato era stato un mezzo disastro. "Conquest", uscito nel 1980, si rivelò infatti un flop tale da far sì che persino un pezzo da novanta come Ken Hensley, tastierista di classe e ottimo compositore, gettasse la spugna e decidesse che era ormai tempo di dedicarsi ad altro. Per un momento si era anche pensato di richiamare David Byron, storica voce, che il pubblico quando vede qualche vecchia faccia è sempre contento, ma la cosa morì prima di cominciare. Fine dei giochi? Non proprio. Il buon Mick a quel punto si rimbocca le maniche e, di fatto, rimette in piedi il gruppo da zero.


Persa per strada la sezione ritmica, torna dietro le pelli il grande Lee Kerslake, che porta con sè il bassista Bob Daisley, entrambi freschi di esperienza di rilievo come turnisti del migliore Ozzy Osbourne solista. L'ennesimo cambio dietro il microfono vede stavolta l'arrivo di Peter Goalby, che si rivelerà ottimo interprete del nuovo corso degli Uriah, e alle tastiere John Sinclair, la cui collaborazione con Box e soci sarebbe stata poi un ottimo motivo per venire anche lui arruolato alla corte di Re Ozzy qualche anno più tardi. Formazione all-star, quindi, per un nuovo corso che voleva far tornare alla ribalta un nome, quello degli Uriah Heep, che sembrava ormai aver perso molto dello smalto di un tempo.

Musicalmente le coordinate di questa nuova incarnazione degli inglesi riprendono quanto fatto negli ultimi anni, tagliando quindi i ponti con le atmosfere progressive e fantasy del passato per riscoprirsi autori di un AOR robusto e di classe.

"Too Scared To Run" è un ottimo apripista, veloce e trascinante, con un ritornello che sembra essere scritto appositamente per essere cantato a squarciagola durante i concerti. Se "Chasing Shadows" conferma le buone impressioni del brano iniziale, "On The Rebound" e "Hot Night In A Cold Town" vedono gli Uriah Heep cimentarsi con delle cover, di Russ Ballard la prima e di John Cougar la seconda.

Con lo scorrere dei brani non si può poi non notare come, anche nella scelta dell'organico, fossero stati selezionati musicisti che potessero sposare con facilità le scelte del nuovo corso del gruppo: Sinclair non è Ken Hensley e non vuole esserlo, lo stile è completamente differente ma per questi Heep-versione-AOR va benissimo, così come Peter Goalby, tra l'altro già noto nel giro hard rock per una breve parentesi con i Trapeze, è sicuramente adatto a questi brani melodici ma di impatto. Altri pezzi che rappresentano alla perfezione la nuova incarnazione degli inglesi sono "That's The Way That It Is", ancora oggi in scaletta, e la sentita "Prisoner". Con "Think It Over" potremmo quasi parlare di auto-cover, visto che si tratta di un pezzo appartenente al precedente corso del gruppo, quello relativo al periodo dell'album "Conquest", ed entrambi gli autori, il cantante John Sloman ed il bassista Trevor Bolder, si erano entrambi separati da Mick Box e soci.

A voler essere pignoli si potrebbe far notare che il numero di cover è forse esagerato e che, anche per una questione di integrità artistica, sarebbe forse stato meglio puntare su materiale originale e non andare sul sicuro andando a ripescare brani già rodati da altri, ma il risultato ogni volta è più che degno e i pezzi sono ben rielaborati, rendendo francamente impossibile distinguere quali siano farina del sacco di Mick Box e quali no. La sensazione che pervade l'intero album è quella di un'operazione commerciale gestita nei minimi dettagli, dalla capacità, davvero camaleontica, di lasciarsi alle spalle sonorità ormai morenti come quelle dell'hard progressive e di rinascere come gruppo AOR, fino all'immagine scelta per la copertina, un obbrobbrio rosso-arancio inguardabile, ma che aveva, palesemente, lo scopo di incuriosire i fan di una scena heavy metal britannica sulla rampa di lancio.

Nello stesso periodo, per promuovere l'album, era stato anche pubblicato un ep, "Abominog Junior", che includeva, oltre a "On The Rebound", anche i brani "Tin Soldier" e "Son Of A Bitch", ormai onnipresenti bonus delle varie ristampe del disco.

A conti fatti "Abominog" fu un disco sicuramente ben riuscito e che raggiunse pienamente il proprio intento, ovvero quello di ricreare un certo interesse intorno ad un gruppo protagonista di stagione ma che da tempo sembrava destinato ad un inevitabile declino. Un po' come quando c'era John Lawton dietro il microfono, la scelta del cantante fece sicuramente la differenza, riuscendo a dare stabilità ad un gruppo che aveva sicuramente la necessità di mantenere la propria formazione intatta per almeno due album di fila. "Abominog" avrebbe dato il via ad un'interessante parentesi nella storia degli Uriah Heep, forse meno seminale di quella che vedeva protagonisti David Byron e Ken Hensley, ma sicuramente degna di attenzione. Non un capolavoro, ma comunque un disco da riscoprire.

  • Peter Goalby, voce
  • Mick Box, chitarre e voce
  • John Sinclair, tastiere e voce
  • Bob Daisley, basso e voce
  • Lee Kerslake, batteria

"Abominog":

  1. Too Scared To Run
  2. Chasing Shadows
  3. On The Rebound
  4. Hot Night In A Cold Town
  5. Running All Night (With The Lion)
  6. That's The Way That It Is
  7. Prisoner
  8. Hot Persuasion
  9. Sell Your Soul
  10. Think It Over
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