Fin dalla loro formazione nel 1969 la band inglese ha sempre avuto la strada in salita. La loro nascita a ridosso di altre realtà quali Led Zeppelin e Deep Purple li resero inevitabilmente meno conosciuti, nonostante meritassero come le band su citate. A questo si aggiunse il tedio della critica che fin dal primo momento li distrusse, relegandoli a band di margine della scena rock europea e mondiale. Non sono bastati i capolavori dei primi anni per convincere i detrattori. Per questo motivo gli album che vengono dopo il 1972, dopo "The magician's birthday", hanno avuto il compito ancora più complesso di salvare la faccia di una band che coraggiosamente ha continuato il proprio cammino sfornando anche lavori di buon livello come "Wonderworld" e soprattutto "Firefly".

Le difficoltà iniziali che la band si portò dietro per diverso tempo culminarono nel 1980 con la dipartita del tastierista e mente del gruppo Ken Hensley a cuì seguirono gli abbandoni anche di altri membri del gruppo: il cantante John Lawton e il batterista Lee Kerslake si accomiatarano dall'unico leader rimasto, quel Mick Box che ancora oggi rimane come il vessillo storico degli Uriah Heep. Così dopo l'uscita dell'appena sufficiente "Abominog" del 1982, i cinque membri della band tornarono in studio per dare alla luce il quindicesimo capitolo della loro lunga vita musicale: un anno dopo "Abominog", venne rilasciato "Head first", con il difficilissimo compito di non far rimpiangere gli inizi degli Uriah Heep e allo stesso tempo riscattare le ultime fiacche uscite.

L'album in questione conferma però le titubanze degli ultimi periodi: "Conquest" e "Abominog" non avevano entusiasmato, visti come buoni album di rock da una band che aveva sfornato capolavori assoluti. Su questa scia si pone anche "Head first", aperto dalla carica elettrica della splendida "The other side of midnight", cui segue il pop/rock efficace di "Stay on top". Due canzoni che insieme alla successiva "Lonely nights" (cover di Bryan Adams) danno un inizio più che positivo al platter. Fin da subito troviamo una band affiatata che dimostra ancora la propria verve musicale: Peter Goalby dietro il microfono svolge bene il suo ruolo (seppure inferiore a cantanti quali Byron o Lawton), Mick Box sottolinea la sua maestria con le sei corde così come si fa sentire il ritorno dietro le pelli di Kerslake (il suo abbandono gravò soltanto sul disco "Conquest", in quel caso sostituito da Chris Slade).

Dopo un inizio positivo, carico e che fa ben sperare, gli Uriah Heep tornano ad avvinghiarsi su loro stessi con composizioni sufficienti di rock poco originale, proprio quello che non ci si aspetterebbe da una band come loro. "Sweet talk", "Love is blind" e "Red lights" passano via senza particolari sussulti. Torna a galla quell'aria di superficialità già avvertita in alcuni lavori precedenti, che per fortuna viene in parte spazzata via da "Rollin the rock" e "Straight through the heart". Ciò non toglie che la band d'oltremanica abbia risentito molto delle liti interne e dei continui dissestamenti di line up e il risultato è un album certamente sufficiente, ma che nulla aggiunge alla carriera di una delle più belle realtà rock della storia.

Il loro destino era scritto ancora prima di nascere, la loro storia sembrava già essere stata raccontata. Contro le critiche, le difficoltà e il peso delle altre band hanno portato avanti una carriera assolutamente invidiabile. "Head first" fa parte di questa storia, sebbene non sia uno degli avvenimenti fondamentali.

1. "The Other Side Of Midnight" (3:55)
2. "Stay On Top" (3:35)
3. "Lonely Nights" (4:07)
4. "Sweet Talk" (3:51)
5. "Love Is Blind" (3:38)
6. "Roll Overture" (2:18)
7. "Red Lights" (2:57)
8. "Rollin The Rock" (5:31)
9. "Straight Through The Heart" (3:39)
10. "Weekend Warriors" (3:50)

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