Serendipity. Una parola che ricorre ciclicamente nella mia vita. Trovare in modo inatteso qualcosa mentre si ta cercando altro, in poche parole una casualità positiva.

Un'occhiata al calendario da tavolo smentisce ciò che vedo al di la del vetro e cioè che febbraio 2010 sta finendo.
Cerco tra la pila disordinata di cd qualcosa di riflessivo, meglio se strumentale, che tenga compagnia a me e al libro che sto per iniziare a leggere.
Poi lo sguardo va a cozzare su quella un po' più ordinata dei vinili. Ne spunta dal mucchio uno doppio, dalla copertina vagamente anonima, rispetto alle altre, come quei volumi rilegati di certe enciclopedie che non ho mai aperto.

La dicitura semplice semplice dice già tutto: "Uriah Heep Live January 1973". Non può non saltare all'occhio visto il colore completamente nero scelto dalla band per questo loro primo live. Nero a lutto penso.
Niente a che vedere con il più famoso e celebrato black album degli AC/DC, ma un'altra sbirciata al calendario mi porta alla mente che 25 anni fa lasciava questo mondo un personaggio unico ed ingombrante come il suo carisma: David Byron.
Non sbagliavo, ma certo non potevo immaginare che proprio fra tre giorni (il 28 febbraio per intenderci) ricorre il 25°anno da quel tragico evento.
25 cifra tonda. Le poche righe che butto giù di getto sono il mio personale omaggio a lui, alle canzoni scritte con gli Heep ed ovviamente al suo modo unico di cantare  e di interpretare un testo scritto(a proposito consiglio caldamente una lettura delle traduzioni dei testi che scrisse insieme a Ken Hensley per capirne lo spessore visionario/malinconico). Non mi dilunghero inutilmente in elogi al disco, qui c'è poco da dire. La registrazione del tour inglese nel '73, per la maggior parte quella di Birmingham, fu in quel tempo considerato l'unico "rivale" al capolavoro per eccellenza dei dischi rock dal vivo, che risponde al nome di "Made In Japan". L'unico che poteva avvicinarsi a quanto fatto dai conterranei Purple pochi mesi prima.
Qui c'è solo una parte delle due ore di concerto che il gruppo teneva in quegli anni, con una predilizione particolare per i brani estratti da "Look At Yourself".

Mi sembra quasi superfluo citarne il contenuto tanto è l'abbondanza di spunti che potrebbero uscirne fuori e non ho tutto quel tempo. Le lunghe versioni di "Gypsy", (dove finalmente Lee"the bear"Kerslake da sfogo ai suoi impeti troppo spesso trattenuti nelle incisioni in studio) e sopprattutto di "July morning" valgono al disco un posto di riguardo in qualunque discografia. Una scaletta tremenda e una tentazione troppo ghiotta per Ken Hensley improvvisare in lungo e in largo con i suoi organi e sintetizzatori, cosa che puntualmente si verifica. Una "Tears In My Eyes" con Mick Box sugli scudi, la "mazzata"devastante di"Look At Yourself" sparata a velocità folle, la poesia di "Circle Of Hands" finendo con il basso "incredibile" di Gary Thain che tra questi solchi raggiunge il suo apice.
Il resto e puro hard prog settantiano d'autore e un medley finale a base di celebri cover rock'n'roll anni '50-'60 con un istrionico Byron autentico mattatore. Medley che ancora oggi dà un'autentica lezione alla miriade di gruppi che verranno dopo di loro. Cioè che prima di tutto, prima dei soldi, prima della fama, prima dello show, quando si va sul palco la prima regola del r'n'r è divertirsi e non prendersi troppo sul serio.
Sono assolutamente sicuro che anche per quelli che degli Uriah Heep conoscono solo l'anthem "Easy Livin'" e l'immortale riff di "Gypsy" sarà una rivelazione ascoltare questo disco. Capirete con le vostre orecchie perchè ogni critico musicale del settore adori questo album nero.

Fatelo vostro consci del fatto di avere tra le mani sicuramente uno dei capolavori rock degli anni settanta.
Unica raccomandazione che vi faccio è che è severamente vietato ascoltarlo se non si conoscono le versioni originali dei brani in studio. Vi toglierete parte della goduria trovandovi faccia a faccia a qualcosa di nuovo. Le improvvisazioni di tutti quanti i membri, l'uso e la riproposizione impeccabile dei cori polifonici dal vivo(vero trademark della band), l'ugola riconoscibile tra mille di Byron, le versioni torrenziali e molto più dure dei loro cavalli di battaglia. Tutto l'occorrente per dare un vestito nuovo a ciò che già si conosce.

Un po' come in una camera oscura mentre tenete in mano l'istantanea che poco a poco prende forma, voi che pensate al momento in cui l'avete scattata avendo il timore di aver sbagliato luce o di avere mosso troppo il braccio. Poi tutto ad un tratto compare il soggetto di quello scatto. E voi che pensate: si,proprio come me l'ero immaginato.
Per oggi il libro può aspettare sul davanzale a controllare che il calendario non menta. Mentre David Byron alla fine del disco si lascia andare ad un: "Thank you very much, good night, God bless you!", mi trovo con una certezza in più, cosa non da poco di questi tempi, già sento addosso un po'di primavera. 
E pensare che cercavo altro.

Il parere del commendatore Bossolazzi:

Più che un album, un manifesto. "July morning" su tutte. 5 nespole.

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