Un mondo meraviglioso.

Dicono.

Forse lo è, o verosimilmente forse no.

Meravigliosa apparenza, quantomeno.

Così era anche per gli Uriah Heep nel millenovecentosettantaquattro; meravigliosa apparenza, quella del gruppo inglese, raggiunta dopo una irta e lunga arrampicata fatta di batteristi scartati come Dietorelle, di insuccessi in patria e di silurate giornalistiche (ormai proverbiale è l’articolo di Melissa Mills, la quale nel ’70 - tra le altre cose - giunse a dire che “Gli Uriah Heep sono dieci volte più noiosi dei Jethro Tull”).

Da due anni il gruppo imperava nella sua formazione migliore, quella che vede il bravo Kerslake alla batteria ed il compianto, ottimo Gary Thain al basso.

Nel 1972, come ben sanno i quattro gatti che commenteranno questa recensione, uscirono i gemellini “Demons And Wizards”e “The Magician’s Birthday”, mostruosi capilavoro che consacrarono i nostri e vi avvolsero attorno un’aurea che li rese dei modelli  - forse mai troppo celebrati - per una sfilza di generi, gruppi ed artisti dei decenni che sarebbero venuti.

Dopo un altro album (“Sweet Freedom”) ed un live dal successo planetario, tronfi del loro irripetibile amalgama, i cinque si ripresentano con un ellepì che è evidente figlio di tutto quanto hanno musicalmente appreso.

Mick Box è sempre il solito gnomo che, appena intravede tra i capelli il pedale del wha-wha, ci saltella sopra e rende il suo suono, seppur mai tecnicissimo (nonostante le sue porche figure le faccia eccome), assolutamente inconfondibile. Lee Kerslake ha un ottima personalità e un efficace tecnica che, legata all’impressionante basso di Gary Thain (chi ha detto “Why”?), si amalgama in una ritmica dall’incedere trascinante (ne è un fulgido esempio la bella “I Wanna Be Free”, dall’album “Look At Yourself”). Davyd Byron canta da dio, produce e beve. Il mitico Ken Hensley fa tutto il resto: suona le tastiere, il pianoforte, la seconda chitarra, canta, cucina, rassetta, passa lo Swiffer, tiene i punti della Sma e prepara il golf a maglia per gli altri perché il clima a Monaco di Baviera può essere abbastanza rigido.

“Wonderworld” si compone di nove brani tutto sommato piuttosto eterogenei, se paragonati a quelli che furono negli album precedenti. L’esordio spetta alla bella title-track, canzone heeppiana fino al midollo: tappeto di hammond e batteria decisa e pulita, controcanti (dei cori) e controcazzi (di Byron).

Suicidal Man” ne segue la falsariga, ma è Box ora a guidare il gruppo e lo fa usando le corde della chitarra come fosse un filo interdentale durante le strofe e poi esibendosi con il pedale come solo lui sa fare. La bella “The Shadow And The Wind” è la consueta, trascinante ballata e Byron la onora con un’ottima prestazione prima di coinvolgere Hensley prima ed amici e parenti poi in due minuti di irresistibili coretti.

So Tired” è un altro brano tirato e deciso che non lascia dell'amaro in bocca, pur non essendo “Easy Livin’”, così come la delicata e piacevole “The Easy Road”, pur molto bella, non è dal resto l'inarrivabile “Rain”. Queste canzoni in fondo pongono l’accento su ciò che questo ellepi è, ossia un ottimo lavoro con pregevoli brani, ove però viene forse meno parte della genialità che aveva contraddistinto gli immortali album del biennio d’oro della band inglese.

Si torna tuttavia a correre con “Something Or Nothing”, efficace condensato dello stile del quintetto, con la chitarra che si fonde all’organo e poi saltella gioiosa in accordi felici mentre il basso trascina la mandria a pascolare per i prati. Molto belli i sei minuti tondi tondi di “I Won’t Mind”: alla gioiosa batteria si unisce dapprima la chitarra distorta di Box e poi quant’altro è il caso si unisca: la bella voce di Byron (piccola nota: per tagliare la testa al toro, dico che canta sempre Byron, così evitiamo sterili discorsi di parte e siamo tutti più contenti), le tastiere di Hensley, il folle basso di Thain e compagnia briscola; e avanti felici così.

“We Got We” scivola via con piacere e richiama molto il tema della succitata “Why” - che, per chi non lo sapesse, è una sorta di mistero glorioso degli Uriah Heep, in quanto non compare in alcun album ufficiale ma si banfa di se stessa - in almeno settantatré versioni differenti - come bonus track un po’ ovunque: in ristampe su cd, in raccolte varie, nella rubrica “Do Re Ciak Gulp!” di Mollica ed a “Guerrino consiglia” su Tv Parma, oltre ad essere distribuita in allegato a “Topolino” ed a pubblicazioni quali il “Giornale Geotecnico”, il catalogo Ikea e “La sentinella” di Lamon.

Chiude l’album la lunga e sognante “Dreams”, in cui alla solidità di un’irreprensibile ritmica si contrappone l’oniricità delle tastiere in momenti di bonaccia interrotti dal solito wha-wha che talvolta rompe anche le palle, se uno sta dormendo.

O, meglio, stava dormendo.

Ecco, lo sapevo, mi sono svegliato.

Il sogno è interrotto.

Forse l’idillio cambia le persone, forse è solo difficile da mantenere.

Forse è destino che litigi e tragedie calino un velo di tristezza su un mondo che pareva meraviglioso.

Quella strada più facile che gli Uriah Heep cantavano stava distruggendo il buon Thain, tanta merda ed una scossa elettrica non ebbero pietà di lui. Quella stessa ingannevole strada, qualche anno più tardi, porterà David Byron ed il suo cognome da maledetto nell’abisso alcolico che lo ucciderà.

I sogni però non muoiono: i sogni anzi dissolvono l’ombra nel cuore ed il vento nella mente. I sogni sono cerchi di mani, i sogni sono abbraccio fraterno.

Ben presto, rispettosi ed ancora entusiasti, gli Uriah Heep ritornarono alla Fantasia e si lasciarono alle spalle il mondo ormai corrotto.

Da allora non sono più tornati.

Mick ancora oggi saltella su quel pedale, e chi dorme non può che svegliarsi.

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