44 minuti di furia cieca per un assalto sonoro in piena regola: questo è “Endstrand”, sesto album in studio dei Valborg. Il trio tedesco, formatosi a Bonn nel 2002, si allontana decisamente dalle tinte progressive e gotiche del precedente “Romantik” per ridurre all’osso il suo industrial metal, affiancando alle già presenti sfumature doom, death e black una forte attitudine punk. Tutto ruota attorno a un inscalfibile muro di suoni ruvidi e grezzi; i sintetizzatori sono completamente spariti, lasciando strada libera al lavoro primitivo e martellante di chitarra, basso e batteria.
I tredici brani di “Endstrand” si susseguono uno dopo l’altro senza sosta; una vera e propria colata lavica di distorsioni taglienti e urla sguaiate che non dà mai tregua all’ascoltatore. L’impressione è che l’obiettivo dei Valborg sia proprio questo: spogliare il genere di ogni tipo di fronzoli e puntare tutto sulla semplice forza di impatto, dando vita a una musica pesante e ossessiva che eleva rabbia e istinto primordiale a esperienze catartiche.
Le intenzioni sono chiare già a partire dai primissimi secondi dell’opener, “Jagen”: un feedback lancinante lascia velocemente campo libero al totale caos scandito da una batteria che pesta come una macchina da fabbrica. Nessuno spazio per assoli o melodie; i testi (tutti in tedesco) si limitano molto spesso a una o due parole gridate al microfono, come nell’inno satanico “Orbitalwaffe” o nell’altrettanto infernale “Beerdigungsmaschine” (“Macchina funeraria” in italiano). I pochissimi momenti meno duri (la simil-new wave di “Bunkerluft”, l’arpeggio pulito sulle strofe di “Geisterwürde”) vengono spazzati via dalle bordate punk di “Blut am Eisen” e “Exodus”, mentre pezzi poco più elaborati come l’industrial “Stossfront” e “Plasmabrand” si oppongono alla genuina ruvidezza di “Alter” e alla blasfemia spigolosa di “Ave Maria”.
Tra Killing Joke e Celtic Frost (con in più un pizzico di hardcore), “Endstrand” rappresenta un corposo passo in avanti nella carriera dei Valborg: la scelta coraggiosa di “scarnificare” la proposta musicale e immergerla in una vasca di rovente metallo fuso si è rivelata assolutamente vincente. L’adozione di un approccio più immediato e minimale rispetto all’esperienza di “Romantik” premia il talento del trio tedesco, ancora poco conosciuto ma pronto a spiccare il volo. Un ottimo disco che mi permetto di consigliare a tutti coloro che, di tanto in tanto, non disprezzano farsi scartavetrare i timpani alla vecchia maniera.
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