Se tre indizi fanno una prova, a questo punto ho la prova che Valerie June, con «The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers», è arrivata a fare un gran bel disco.

Di cosa è fatto un gran bel disco? Per me, sono essenziali la voce, il suono e le emozioni: nel caso, la voce e il suono ce li mettono Valerie e la sua banda, le emozioni sono sempre cosa mia.

Primo indizio: la voce.

Valerie ha una voce fuori dalla norma – tra l'infantile e il nasale, il primo impatto è disturbante – e a me le voci fuori dalla norma spesso stancano e presto mi stanca ciò che ruota attorno a quella voce: per dire, certe prestazioni di Bob Dylan dal vivo, qualcosa di Neil Young, ognuno ha le sue ubbie.

Valerie la “conosco” una decina di anni fa, all'altezza di «Pushin' Against a Stone», suo terzo album prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys nel 2013, quando farsi produrre un disco da Auerbach significa che ce l'hai fatta e puoi iniziare a vivere di rendita: da principio quel disco lo ascolto con moderazione ma me ne stanco presto, per via della voce di Valerie, anche se la musica non è male, sorta di blues, country e folk elettrificati e resi con discreta vigoria.

A dire la verità, in quei mesi mi sembra un disco che appartiene più ad Auerbach che a Valerie, forse lei non ha una personalità imponente.

Poi succede che, qualche anno dopo, su quel disco ci torno e mi innamoro di un brano, quello che chiude l'album, «Somebody to Love»: Valerie lo suona pure a ranghi completi – chitarra, basso, batteria e chi più ne ha più ne metta – all'inizio del disco; ma, alla fine, imbraccia l'ukulele ed in perfetta solitudine ne offre una versione acustica.

Se la versione elettrificata dico che, sì, non è male, quella senza spina allora ed oggi mi appare bella da togliere il fiato; per via della voce di lei, ovvio.

Che è come se alla fine si sia sentita sopraffatta da Auerbach e abbia deciso di fare qualcosa di “suo”, di avviare i primi passi lungo un altro percorso, nel senso che Valerie di personalità ne ha da vendere, altroché.

Quel percorso per Valerie dura 4 anni e porta ad un album che è «Order of Time». Bob Dylan, per Valerie e per quel disco, spende poche ma sincere parole di ammirazione, forse è che con l'età il carattere si ammorbidisce, più probabile che il talento di Valerie cominci a sbrilluccicare.

Io, in altre faccende affaccendato, quell'album me lo perdo e Valerie la ritrovo solo poche settimane fa e in otto anni cambia tutto o quasi, solo la voce rimane quella; e mi ritrovo convinto che, se io la signora June non ci frequentassimo da tempo, tutto sarebbe stato più semplice, perché della sua voce, della sua musica e di lei mi sarei invaghito al solo ascolto di «Call Me a Fool», senza un susseguirsi altalenante di bassi e alti.

Questo album lo compro perché uno di cui mi fido a occhi chiusi mi dice che «Call Me a Fool» è un pezzo maestoso, dagli un ascolto; lo faccio, ne resto folgorato, il disco deve essere mio ad ogni costo, sono disposto anche ad affrontare il rischio che il resto del programma sia meno di zero.

Oggi quel disco è mio e da un mesetto ormai domina incontrastato i miei ascolti.

Secondo indizio: il suono.

A me, in un disco di musica pop non piacciono gli archi, viole, violoncelli e amenità del genere, tollero al massimo il violino, e infatti, uno dei brani che più ho imparato ad odiare è «Nothing Else Matters» dei Metallica, per la presenza degli archi. E però, uno dei brani che più ho imparato ad amare è «The Light Will Stay On» dei Walkabouts, sempre per la presenza degli archi.

Perchè la musica bisogna saperla comporre, gli ingredienti – soprattutto se disparati – serve una mano esperta per dosarli ed amalgamarli: i Walkabouts quel talento ce l'hanno innato, i Metallica no, loro saranno degli ottimi metallari ma quel brano non so se è più patetico o ridicolo, al livello delle esibizioni della buonanima di Pavarotti e dei suoi amici rocchettari.

Ora, il disco di Valerie di archi è ricolmo fino alla cima e lei, come gli Walkabouts ha il talento innato per innestare in un contesto genericamene pop archi in quantità che nemmeno Mozart avrebbe immaginato.

C'è sempre quel brano, «Call Me a Fool», all'inizio sembra fatto di poco – la classica strumentazione di chitarra, basso, batteria e organo – poi nella seconda strofa entrano gli archi e poi agli archi si aggiungono i fiati, e diventa un capolavoro; forse lo sarebbe stato anche senza gli archi, ma non ho il minimo dubbio che la loro presenza da maggiore risalto alla bellezza dell'insieme.

E alla voce di Valerie, che in questo frangente è qualcosa di incredibile.

Terzo indizio: le emozioni.

Che sono le mie, ma pure di qualcun altro.

Ad esempio, di quello che ci capisce e mi ha suggerito di dare un ascolto al nuovo album di Valerie, e descrive quel brano, sempre lo stesso, come «... soul favoloso che pare giungerci dritto dai tardi ’60 e dagli studi Stax o Atlantic. Non potendo più chiamare Aretha Franklin a duettare con lei, Valerie ha convocato Carla Thomas.» (ecco, l'unica nota che ci metto di mio è che a me ricorda tantissimo Etta James alle prese con «I'd rather Go Blind» ed avrei detto lei invece di Aretha).

Oppure, di quello che considera che «Al tempo con un singolo come questo mi sarei fatto una cassetta da 90 min. con il lato a di questa canzone a ripetizione. L’ultima volta è stato con Lover you should’ve come over.».

L'ultima volta mia è stata «What Price for Freedom» dei Naked Prey ma sempre emozioni sono, giusto un filo più ruvide.

Forse è l'età che addolcisce il carattere, ma una cassetta con 90 minuti di «Call Me a Fool» oggi me la registrerei e giù brividi a non finire.

E quindi ci sta una voce da brividi, un suono splendido, emozioni a pioggia: la prova che Valerie ha fatto un gran disco, mi sono convinto. E mi sbilancio pure scrivendo che è uno di quei dischi sempre più rari, destinati a durare negli anni.

Giusto una cosa per chiudere ed è che in questa paginetta ho scritto solo di «Call Me a Fool», ma ci sono tutti gli altri brani che, se non raggiungono quel livello apicale, ci vanno dannatamente vicino:

i languori blues e country di «Two Roads», splendida, «Call Me a Fool» la vale tutta; «You and I» che sembra un gospel ma poi entra la batteria, accelera e diventa tutt'altro, per poi ritornare gospel e poi cambiare di nuovo; il moderno classicismo folk di «Colors» e «Fallin'»; quella meraviglia di «Smile» che prende di peso i gruppi vocali femminili degli anni '60 e li catapulta nel 2021; la pulsante «Stardust Scattering»; in un turbinio di sensazioni che vanno da Whitney Houston – ce la sento, forse sono impazzito – a David Sylvian, tutto con grandissimo gusto e innato talento, appunto.

Che bello sarebbe se uno di questi pezzi – propongo «Smile», con tanto di video adattissimo alla bisogna – scalassero e dominassero le classifiche da qui alla fine dell'anno, sarebbe davvero una gran cosa.

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