Dannati Ulver.
Ancora loro, ovunque. E lasciamo perdere la svolta elettronica, riuscitissima: assurda, se si pensa che dietro ci stava un gruppo metal.
Le origini metal, la trilogia black metal, culminata con quel “Nattens Madrigal” (1997), terzo atto che non solo chiudeva un ciclo per la band, ma apponeva significativamente il sigillo finale su un'intera epopea, quella del True Norwegian Black Metal: l'album definitivo, oltre il quale non si poteva andare, ed infatti non si andò. E non bastò agli Ulver mettere la parola fine ad un'epoca, né, anni prima, rivoluzionare l'universo black-metal stesso tingendolo di folk e contestualmente gettare le basi per gli sviluppi di quelle derivazioni post- che fioriranno all'alba del terzo millennio. Era il 1995, usciva “Bergtatt”, l'esordio di questa band già perfetta al suo primo vagito.
Date quelle premesse, ancora oggi mi domando stupito come i Nostri trovarono le palle per stravolgersi già al secondo atto e gettarsi a capofitto nel folk tout court del bellissimo “Kveldssanger”, quando avrebbero potuto tranquillamente impostare un'intera carriera sfornando a ripetizione copie, anche peggiorative, della loro superba opera prima.
Ed invece eccoli ricalibrati in una formazione a tre, con le chitarre acustiche, in un album quasi strumentale: i Canti della Sera. Tanto drastica fu la svolta, che persino io all'epoca (era il 1996) mostrai qualche resistenza, ma solo all'inizio, perché era troppo bello “Kveldssanger” per non sciogliere in un brodo di giuggiole persino il merdallaro più irriducibile, che nelle buie e fredde notti d'inverno, di nascosto, lontano da orecchie indiscrete, soleva immergersi e specchiarsi in quel mondo di pace ricreato ad arte dai Lupi.
Il fatto è che se sei giovane, metallaro, inesperto, tendi ad esaltarti per cose che poi negli anni scoprirai essere la copia sbiadita/grossolana di altra roba fatta meglio da qualcun’altro. “Kveldssanger” no: quei trentacinque minuti sono ancora il miglior folk nordico possibile, o per lo meno il modello con cui obbligatoriamente bisogna ogni volta confrontarsi.
2013: Vàli - “Skogslandskap" (Propecy)
Se “Kveldssanger” erano storie di persone semplici, di vita vissuta in villaggi rupestri immersi nella maestosità dei paesaggi imponenti dell'antica Norvegia (tradizione e cultura in simbiosi con la Natura), Vàli va oltre e sveste questi cantici arcani dell'elemento umano: è la Norvegia denudata, penetrata, ritratta nella sua apoteosi naturalistica, riprodotta in eleganti miniature che rendono onore all'armonia ed alle impercettibili, lente mutazioni di una natura incontaminata.
“Skogslandskap” (“Paesaggi Boschivi” in italiano), che segue sulla lunga distanza il debutto “Forlatt” del 2004 (dopo anni di silenzio in cui l'unico segnale di vita, nel 2010, era stata la partecipazione, con un paio di brani, alla compilation “Whom The Moon A Nightsong Sings”), è la seconda preziosa testimonianza discografica di Vàli, misteriosa entità anch'essa norvegese.
Le corde di una chitarra acustica appena sfiorate, accarezzate, amate, a tratti percosse con vigore; dietro, un quartetto di musicisti, un intrecciarsi delicato ed epico insieme di violino, violoncello, flauto e pianoforte – prodigioso quest'ultimo. Vàli è uno spirito del Nord che detiene le chiavi che permettono di dischiudere porte, accedere a sentieri segreti che zigzagano fra i fitti steli delle conifere che con le loro chiome acuminate ricoprono scoscesi declivi; le fronde che ondeggiano al vento, la luce che scema rossastra, sanguinante, dentro alla notte nera che altrettanto lentamente dà il cambio al giorno nuovo, rivestito di bianco accecante. Un viaggio magico che origina dalla quiete del crepuscolo e che trasporta, attraverso le fragranze del legno e delle resine, il sapore appuntito del gelo e della neve, lungo le ombre lunghe che proietta la sera, al risveglio prodigioso degli esseri della notte: un brulicare sotterraneo di spiriti ed essenze che popolano un sottomondo fatto di gallerie che sbocciano in superficie, fra le foglie secche d'autunno, le radici attorcigliate degli alberi, il greto di placidi ruscelli di montagna. E' il regno della Natura, l'assenza dell'Uomo.
Nel suo genere un capolavoro.
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