Sono passati i fasti di "Pawn Hearts", dove la perfezione stilistica si sposava con una classe innata ed una ricerca melodica complessa e profonda; questi signori inglesi sono invecchiati, inutile negarlo. La loro proposta, sempre personalissima, si è stabilizzata su territori tranquilli e raffinati, ma lontani dalle suite interminabili e dalle strutture maestose degli esordi.
Tanto è che quando un'amica mi ha avvertito di un loro concerto a pochi chilometri dalla mia città, ne sono rimasto sorpreso (loro sono Storia) ma allo stesso tempo dubbioso: se fossero davvero invecchiati, e avessero annacquato la loro musica con il classico andamento da pensionato? Fortunatamente la curiosità ha superato le incertezze, ed il concerto è stato eccezionale; tra vecchi ripescaggi (senza i classici "Theme One", "Killers" ecc.) e cose nuove, mi sono convinto a comprare al loro stand il nuovo "A Grounding In Numbers".
Questo LP si è rivelato un lavoro degno di una grande band che, nonostante i tre decenni passati dalle prime composizioni, non ha mai svilito la propria natura e mai si è piegata alle regole del music business. Rimanendo orgogliosamente secondi.
Le suite da 15 minuti non ci sono più, come i capelli lunghi sono caduti da un pezzo e le camice da poeta contadino sono un ricordo, ora i Van Der Graaf Generator sono degli anziani sorridenti che, dal vivo, tra una canzone e l'altra, scambiando due parole con il pubblico presentano timidamente il pezzo successivo, lasciano che siano le note a parlare. E la musica è un progressive rock dalle sfumature sperimentali (per il largo uso di strumenti poco ortodossi, come bassi dalle "molte corde", percussioni e tastiere particolari), su una base ritmica multiforme e che non si limita solamente a tenere in piedi l'andamento delle note (in questo senso John Evans compie un lavoro egregio, con molta tecnica ma scevro da virtuosismi gratuiti). Da segnalare assolutamente è la voce del leader illuminato Peter Hammill, che gli anni non hanno minimamente scalfito, anzi, l'hanno persino migliorata, rendendola strumento alla pari con gli altri: essa si innesta con maestria nelle strutture delle composizioni e non appare mai eccessiva o preponderante nell'equilibrio globale. Infine Hugh Banton si fa in quattro suonando tastiere e bassi vari, e cori.
Allora è tutto perfetto? E' il capolavoro che aspettavamo dopo "Pawn Hearts"? Non proprio, siamo in universi paralleli, ma distinti. Il tessuto della musica, che rimane sospesa tra tonalità medie e raffinati dettagli, vale decisamente di più delle canzoni, che probabilmente in altre vesti avrebbero figurato in maniera minore, pur essendo di buon livello; perciò in questo disco un'analisi track-by-track è fuori luogo, le composizioni prese singolarmente non sono memorabili come l'intero album assimilato dall'inizio alla fine. Si può dire che "Snake Oil" sia un pezzo eccellente, preciso e mediamente incalzante, e "Mr. Sands" figuri come una delle migliori tracce qui presenti, ma è l'album nella sua completezza che va ascoltato senza saltare nulla, per immergersi nell'atmosfera da moderni alchimisti creata da questi vecchi inglesi.
Manca un pezzo perfetto come "Darkness 11/11", o una cavalcata alla "Theme One", è vero. Come è pur vero che (forse) un paio di tracce non lasciano il segno come altre. Ma non ci sono tonfi, non ci sono banalità, c'è pura e semplice personalità... e una classe impareggiabile.
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