Certe cose o le ami o le odi.

Ad esempio, il tartufo bianco è una pietanza molto ricercata di cui pochi, tuttavia, riescono ad apprezzare il sapore. Ecco, so che sembrerà assurdo, ma questo è anche il caso dei Van Der Graaf Generator. Ascoltando per la prima volta un loro brano, infatti, non puoi rimanere indifferente; o te ne innamori o ti fa semplicemente schifo. Certo, una piccola cosa va sottolineata: l'uomo che nella vita ha bevuto sempre e solo acqua non sarà mai in grado di distinguere un Lambrusco da un Bordeaux... e così anche tu, se non ti vuoi spingere oltre gli angusti confini tra i quali troppo spesso si annida la musica odierna, non afferrerai mai il vero sapore di una qualsiasi canzone dei Van Der Graaf.

Ma ora basta parlare di cucina, parliamo del disco recensito: 'Godbluff' risale al 1975 ed è il quinto album della band. Tre anni prima, in seguito al tour di Pawn Hearts, il leader Peter Hammill (voce, pianoforte, chitarra) aveva lasciato il gruppo per dedicarsi ai suoi progetti solisti, rimanendo tuttavia in buoni rapporti con gli altri componenti, che infatti lo aiutarono nelle registrazioni dei suoi lavori solisti. Alla fine il gruppo ritornò in studio e il risultato del loro lavoro fu 'Godbluff'.

Composto da quattro canzoni piuttosto lunghe, tutte scritte da Hammill, il disco è dominato da un atmosfera di rabbia e pessimismo che traspare sia dai testi sia dalle stesse parti musicali. Tutto si apre con "The Undercovered Man": un leggero accompagnamento di flauto (David Jackson) al quale poi si aggiungono silenziosamente i giochi di Guy Evans sui piatti e l'organo di Hugh Banton. Hammill sussurra, la sua voce tocca note bassissime... è tutto un cresciendo, che va a sfociare nell'ingresso del pianoforte, che insieme alla batteria spezza la tensione e dona al brano una rassegnata malinconia, sottolineata dal canto melodrammatico di Peter, che ora si spinge verso l'alto. E così vieni dolcemente accompagnato sino alla fine del brano, che non presenta grandi tirate, ma regala lo stesso grandi emozioni.

Ecco, se tu invece vuoi le "grandi tirate" sarai accontentato dalla traccia seguente; "Scorched Earth" è registrata dal vivo e mostra i VDGG nella loro formazione più classica: Hammil voce e chitarra, Jackson al Sax e Banton all'organo. 10 minuti pieni di accellerazioni ritmiche, tempi assurdi, riff ora aggressivi ora angoscianti... insomma, ti viene mostrato il lato più selvaggio della band. Purtroppo però c'è un difetto: la qualità della registrazione (in fondo è un live di 30 anni fa!) risulta alquanto bassa. Lo stesso non vale per la successiva "Arrow". E meno male! La canzone è piena di tanti piccoli particolari che in "Scorched Earth" non potresti mai notare. L'andamento è meno travolgente, più spezzettato. Sembra che gli strumenti stiano tremando. La disperazione emanata dal canto, a cui fa eco il sax è impressionante. Così strazianti le grida finali di Peter: "How strange my body feels / Impaled upon the arrow "... Ed eccoci giunti a "The Sleepwalkers", l'ultimo brano, a mio giudizio il migliore. L'attacco è formidabile: organo e flauto creano riff ipnotici su cui Hammil domina, avventurando la sua voce fra scale e note particolarissime, che una persona normale non riuscirebbe mai a imitare. Il tempo del brano cambia continuamente, Evans da spettacolo sui tamburi. C'è spazio anche per un intermezzo cabarettistico. E poi un bel solo di organo, e poi ancora grida schizofreniche, e una nuova sezione che va a finire nella ripresa della parte iniziale... Da rimanere a bocca aperta, non siamo più ai livelli di "A Plague Of Lighthouse Keepers" ma ci andiamo vicino.

In conclusione vorrei spendere qualche riga sui testi: le canzoni dei VDGG non parlano di viaggi immaginari, mondi fantastici o altri argomenti ampiamente usati nelle liriche dei dischi progressive più famosi. Peter Hammil è una sorta di poeta dell'inconscio, che fin dal 1970 (quindi ben prima che Roger Waters ideasse il concept di The Dark Side Of The Moon) aveva ben chiaro in testa ciò che voleva fare: esprimere attraverso la sua musica e i suoi testi le angoscie che regnavano nel suo animo e che potevano riflettersi nella vita di ogni uomo. Solitudine, incomprensione, paura, pazzia, morte... sono queste, nella maggior parte dei casi, le parole chiave delle sue composizioni. Giochi di parole, rime, e metafore danno vita a queste vere e proprie poesie, il cui significato non è affatto facile da comprendere se non si conosce bene la lingua inglese. A questo proposito segnalo agli appassionati (anche se ho paura che non saranno moltissimi... !) che è presente nel mercato un libro con tutti i testi dei VDGG tradotti in italiano: potrebbe essere una buona occasione per avventurarsi fra gli oscuri sentieri che questa band, unica e inimitabile, decise di percorrere per la prima volta.

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