Allora, facciamo un po' di conto. Referenze?

Brian Wilson lo considera "un genio, i suoi arrangiamenti sono unici, inconfondibili". Al punto che l'amicizia con costui, nata nel 1965, non solo mostrerà frutti - e che frutti... - in quella bagattella d'album che è "Pet sounds" ma porterà l'anno dopo alla collaborazione stretta di "Smile", il Santo Graal del pop da poco alfine rinvenuto.Gli arrangiamenti dell'omonimo esordio di Tim Buckley sono farina del suo sacco e non ci è difficile pensare che il futuro navigatore di stelle abbia imparato da costui, oltre che la passione per certa "roba" e certaltre "aspirazioni", quel paio di cosette su come si rende immortale una melodia. Sinatra e sua figlia Nancy (!) devono a lui e a suo fratello Carson "Somethin' stupid". Ha inventato gli Harper's Bizarre, suonato il piano in "Fifth dimension" dei Byrds, collaborato con le Mothers di Zappa, Buffalo Springfield, Paul Revere & the Raiders e il primissimo Ry Cooder. Venendo ad anni più vicini, per Jim O'Rourke è poco meno che Dio e, ultima tra cotanto senno, la musa Joanna Newson lo ha voluto ad arrangiare e condurre gli archi nel suo celestiale "Ys".

Eppure, nonostante un simile, invidiabile curriculum vitae, Van Dyke Parks, classe 1943 da Hattiesburg, Mississippi, ma presto trapiantatosi nella più lussureggiante California dei Sessanta, rimane a tutt'oggi uno dei segreti meglio celati della Musica Americana, gemma preziosa per addetti ai lavori o al più per pochi palati sopraffini. Motivi? Ne azzardo due. Una produzione che in quarant'anni ormai abbondanti di carriera è stata quanto mai rarefatta, con una decennale cesura temporale che separa i suoi primi tre album - per inciso, i suoi capolavori - dagli ultimi quattro. Non solo. Il percorso musicale di questo campione risulta essere quanto di più straniante ed enciclopedico riusciate ad immaginare. Un viaggio splendido ma di certo impervio, attraverso un "idiosincratico sentiero" - per citare il titolo di una sua bella ma terribilmente parziale antologia - che unisce musical, canzone d'autore, pop orchestrale, blues, folk, pastiche psichedelico, cajun, calypso e ritmi caraibici. New Orleans con Hollywood, Trinidad con Città del Messico, il Bianco col Nero, l'America del Nord con quella del Centro e pure quella del Sud. Pronti? Partiamo? Prima tappa: destination unknown...

"Sono dieci anni che Van Dyke Parks è uno dei miei idoli. "Song Cycle" è il mio disco preferito in assoluto di sempre. Niente di simile è stato realizzato in questo (lo scorso, ndr) secolo" - Jim O'Rourke, 1998

Non è il mio disco preferito (trovarlo!...), dear mr. O'Rourke, ma sulla tua seconda affermazione concordo in pieno. L'unico termine di paragone per quest'album, datato 1968, è se stesso. Cerchio nei campi di grano della popular music tutta, non solo dei Sessanta cui anagraficamente appartiene. A meno che si voglia considerare come plausibile un incontro tra Bacharach, Frank Zappa e gli United States of America chiamati a riscrivere la colonna sonora del Mago di Oz, il tutto con la supervisione di un Brian Wilson che fa colazione intingendo i donuts nell'acido.

"Song Cycle" è pop, ma di un pop orchestrale ed anche corale. E' psichedelico, ma di una forma free distante anni luce da quello dei coevi esperimenti westcoastiani. E' classico, ma di una classicità giocosa, leggera, quasi irridente. E' tutto questo e molto di più, a partire da quella vera e propria pocket-symphony in quattro movimenti e quattro minuti scarsi che è la cover (cover? Qualcuno potrebbe riconoscerla?) di Randy Newman Vine street, per finire - graditissimo omaggio della ristampa in cd Ryko - con la disincantata The eagle and me, in cui è come se Danny Kaye avesse preso il posto di Tom Rapp negli Holy Modal Rounders. Nel mezzo, ci sarà di che deliziarsi col musical da Età dell'Oro - Fred Astaire, questa volta - di Palm Desert. Con la miniatura classica di Widow's walk. Con la marcetta da cartoon disneyano di The all golden, che introduce a sua volta i sessantun secondi di Van Dyke Parks, autentica outtake dalle session del beatlesiano doppio bianco. E ancora: l'intermezzo per voce e arpa di Public Domain, che sfocia nel gioiello assoluto in cui un carillon a tempo di bolero (!) stravolge la Colours di Donovan, passando dal jazz al classico e ritorno, senza poter capire dove termina l'uno ed inizia l'altro. Per finire con gli archi lietamente spensierati di The Attic che si oppongono a quelli dolenti di blues (eccolo, il ritorno alle origini dell'Uomo del Sud) ed al coro singultante di By the people. Al primo ascolto, non avendoci capito niente, dubiterete sulla sanità mentale di chi l'ha scritto e soprattutto di chi ve l'ha consigliato. E così forse anche al secondo e al terzo. Al quarto, quando vi sarà entrato misteriosamente sottopelle, non potrete più farne a meno.

Sono poco più di trentacinque minuti di altissima pasticceria sonora, una torta nuziale multistrato assemblata con cura artigianale, cesellata e rifinita in ogni singolo particolare. Semplicemente, l'opera di un genio.

Non lasciate che Van Dyke Parks continui a essere un idolo per musicisti ed un segreto per pochi

Carico i commenti...  con calma