Ci sono album che meritano di essere considerati (non soltanto) per il loro valore intrinseco di disco, quanto per la loro qualità di vere "macchine del tempo". Piccoli supporti che attiviamo con un semplice play e che altrettanto facilmente ci sanno far rivivere realisticamente un epoca, un periodo storico, quei colori, meglio di un documentario o di un libro scolastico.
"1984" dei Van Halen è uno di questi, e già dal titolo la dice lunga. La band di David Lee Roth e soci arriva a questo sesto album dopo altrettanti sei anni fulminanti, coraggiosi, in cui sono riusciti a rimanere sulla cresta dell'onda grazie a prove piene di brio, freschezza e un ironia scalpitante spesso stonante con l'aria grave e tormentata che andava per la maggiore nel periodo d'oro della NWOBHM ("New Wave Of British Heavy Metal") e del neonato thrash-metal. In effetti la creatura dei fratelli Van Halen, olandesini prodigio rispettivamente chitarrista (Eddie) e batterista (Alex), rientra solo con molte forzature nella categoria dell'heavy metal. Se non altro ne rappresentano un lato anomalo. Spinti dai virtuosismi pirotecnici di uno dei più innovativi guitar-hero che la storia di questo strumento conosca e da una sezione ritmica pesante ma affilatissima, scattante e mai ridondante, già dall'inarrivabile esordio ("Van Halen", 1978) si rendono paladini di un hard rock debitore della tradizione dei giganti degli anni '70 quanto portatore di un suono clamorosamente nuovo, duro ma non per questo violento o "pericoloso". Merito dell’ originale percorso inaugurato dalla band sta in gran parte anche nella scelta di un'incredibile front-man come Lee Roth, il "Diamon Dave" che fa impazzire le platee con le sue performance straordinariamente atletiche ed energiche, e che fa della sua voce (non potente ma malleabilissima ad ogni registro) e del suo istrionismo da prima donna la propria arma vincente. I Van Halen compiono una svolta inaspettata quando dopo anni di scetticismi verso cambiamenti drastici del sound i compagni concedono a Eddie il nullaosta per le sue richieste di sperimentazione elettronica sui pezzi. E fu così che il sintetizzatore fu innestato nell'heavy metal. Ciò che sul momento poteva sembrare una scelta tutto sommato reversibile o poco rilevante divenne una delle principali rivoluzioni del decennio. I Van Halen aggiornarono sorprendente le proprie sonorità ponendosi ora come non mai un gradino sopra a colleghi e rivali.
Era il gennaio 1984, l'indice di gradimento pop del gruppo era già alle stelle dopo il cameo di Eddie nel mega-hit dell'anno precedente di Michael Jackson "Beat It", e uscire con un album intitolato 1984 era tutto un programma. Era un titolo importante, significava porsi ambiziosamente come "il definitivo gruppo dell'epoca", al di fuori di un genere restrittivo: era una sfida al mainstream, ai vari Toto, Police o quant'altri imperversavano nelle classifiche raccogliendo pubblico da ogni fascia di età, prescindendo dalle preferenze musicali individuali. Sin dall'intro intitolato appunto "1984" il gruppo ci mostra subito i suoi assi nella manica, con un suggestivo incipit di elettronica eterea e maestosa, che conduce direttamente all'apripista dell'opera, quella "Jump" dal successo ever-green che dovremmo ricordare più per la breccia pop che ha aperto nel cuore di poco avvezzi metal kids che non per il suo - al fine modesto - valore qualitativo. Con l'esplosiva, pur sempre molto radiofonica "Panama", altro successone del tempo, i Van Halen fanno un'ottima mossa. E' la mossa che porta al successo di quest'album: abbandonano le tastiere, accontentandosi di averci dato comunque un importante assaggio delle loro nuove frontiere, e decidono saggiamente di tornare al loro vecchio stile, granitici inni rock forgiati da mirabili invenzioni tecniche, da un divertimento nel suonare insieme, nel far vedere che si è più bravi di prima, o - ancora meglio - più sicuri, consapevoli. La validità di "1984" sta in questo, nella maturità raggiunta da un gruppo che può permettersi tutto senza sbagliare. Nella saggezza di offrire qualcosa per tutti, innovazione e tradizione, smistate a proprio piacimento nel corso di un album compatto, senza sbavature, altamente arrangiato e curioso in ogni particolare, dai giocosi assoli di batteria da mezzo minuto e le risate fuori campo dell’ improbabile maestrina di "Hot For The Teacher", ai meravigliosi arpeggi elettronici di "I'll Wait", fino al gran finale della furiosa "House Of Pain", mirabile preveggenza di quel che sarà il futuro arena-rock di Guns 'N' Roses, Motley Crue e loro epigoni. Sì, perché "1984", se non ha la bellezza immortale di "Van Halen" o la cristallina purezza di "Women And Children First" è comunque un atto d'amore verso la creatività, l'ammirevole sforzo di rinnovarsi, magari a tentoni, sbagliando ma con fiducia piena nelle capacità di se stessi e dei propri compagni. E' ciò che doveva essere in quel momento, un perfetto ponte tra le stagioni dell'hard rock di "Back In Black" e quella di "Appetite For Destruction". E in fondo quel diabolico angioletto in copertina che si fuma distratto una sigaretta alla nostra salute forse non è che il nonno del neonato acquatico di "Nevermind". Ma non sta a noi fantasticare. La storia è un affascinante ciclo, e "1984" ne è un piccolo tassello da ricordare, per pensare a quel che è stato, a ciò che non tornerà più ma che è giusto non dimenticare.
Carico i commenti... con calma