Rabbia. Disgusto. Indignazione. Si, sono queste le sensazioni che ho provato (e in tutta modestia ritengo di non essere stato l'unico) di fronte a uno degli ultimi, clamorosi obbrobri pubblicati sulla famigerata rivista "Rolling Stone", per la quale non ho mai avuto molta simpatia e, alla luce di quanto ho avuto la (s)fortuna di leggere, ne avevo ben donde. Articolo pubblicato nel maggio del 2007, in cui figura una classifica così intitolata: "15 Worst Albums By Great Bands"; ossia, i quindici peggiori album mai incisi da pur gloriose formazioni, senonché si va a leggere la classifica e (prima contraddizione) non si incontrano solo gruppi, ma anche solisti quali Bob Dylan, Neil Young, David Bowie, Morrissey e così via... E ancor prima di domandarsi quale sia il senso di un'operazione del genere non si può non gridare allo scandalo quando, in graduatoria, si incontrano "Presence" dei Led Zeppelin e soprattutto "Beautiful Vision" di Van Morrison, per giunta accostati ad album (quelli sì, davvero imbarazzanti) come "Old Ways", "Down In The Groove" e "Cut The Crap", comunque penalizzati dal fatto di essere stati prodotti in circostanze particolari (non è questa la sede per discuterne, ma gli appassionati non avranno fatica ad intendere).
Orbene, veniamo al dunque: "Beautiful Vision" tra i peggiori quindici album di sempre? E cioè, non solo punto più basso dell'intera produzione di Van Morrison, ma addirittura meritevole di inserirsi fra il peggio di quanto il Rock avrebbe prodotto in oltre cinquant'anni? Anche ammesso che tale giudizio sia stato espresso sulla base di una seria analisi critica (e francamente il sottoscritto non lo crede), trovo vergognoso il trattamento riservato ad un album di inestimabile spessore, importante non solo per qualità dei contenuti proposti, ma anche per la significativa posizione che, storicamente parlando, occupa nella copiosa discografia del Genio nordirlandese: trattasi d'un ideale spartiacque, di una pietra miliare, di una metaforica linea di confine tra il Morrison "di prima" e quello che, con redivivo spirito e creatività, avrebbe dato forma negli Ottanta a capolavori del livello di "Inarticulate Speech Of The Heart" e "No Guru No Method No Teacher".
Non fu un successo commerciale, tutt'altro: uscì quasi in sordina nel febbraio del 1982, e in Gran Bretagna raggiunse una modesta trentunesima posizione; peggio ancora negli Stati Uniti, considerato il quarantaquattresimo posto nella classifica di Billboard. Lontano dai fasti di un "Moondance" o di un "Into The Music", ma anche diversissimo per filosofia rispetto a quegli album che ebbero grande successo in quanto a vendite. Vena spensierata, leggera, quella che animava i due dischi ricordati; atmosfere per lo più posate, meditative, spesso e volentieri nostalgico-malinconiche per "Beautiful Vision", il cui ascolto non si potrà certo definir "facile".
E la difficoltà dell'ascoltatore aumenta alla lettura dei testi, mai così criptici e difficili (a confronto la scrittura di "Astral Weeks" risulterà persino più accessibile, e il confronto rende appieno l'idea) anche dietro l'apparente, illusoria linearità di alcuni momenti. Siamo in presenza di uno degli album liricamente più complessi nella storia del cantautorato occidentale, prodotto di un approccio "cerebrale" e "spirituale" allo stesso tempo e nella stessa misura, denso di riferimenti colti e comprensivo di infinite implicazioni extra-musicali: ideale continuazione di un discorso avviato da Morrison (ma in pochissimi se ne erano accorti) con il precedente "Common One", album ricordato soprattutto per gli epici quindici minuti della maestosa "Summertime In England", per tanti anni pezzo di chiusura fisso nei concerti del musicista di Belfast. Era il passo che precedeva la svolta definitiva: con "Beautiful Vision" si entra davvero nella nuova dimensione.
Una dimensione in cui cantautorato e letteratura vanno a convivere ancor più strettamente che in passato, e in cui assumono un ruolo centrale gli spunti, le suggestioni varie provenienti dall'immaginario popolare celtico: tradizione collettiva e memoria personale si intrecciano, si mescolano e si confondono con esiti mirabili, commoventi, ammalianti. I riferimenti alla cultura irlandese si estendono anche al piano più prettamente musicale, nella scelta di certe - peculiari - soluzioni timbriche e nella predilezione per una suggestiva forma di Rhythm & Blues "atipico", contaminato ma non snaturato, non privato dei suoi tratti distintivi (in primis, l'uso della strumentazione: vedasi il consueto ricorso ai fiati) e capace di accompagnare, di assecondare al meglio le intricate tematiche che l'autore ha in progetto di sviluppare: come evidente dalle note di copertina, gran parte dei testi sono rielaborazioni di concetti di teosofia e occultismo illustrati dall'astrologa Alice Bailey nell'epocale "Glamour: A World Problem", trattato che Morrison asserisce d'aver letto quattro o cinque volte, sempre cogliendovi risvolti nuovi ed impensati; il brano che più risente dell'influenza dell'opera della Bailey è senz'altro "Dweller On The Threshold": letteralmente, "l'abitatore della soglia", ma il sintagma - d'uso convenzionale - nasconde un significato ben più profondo della sua letterale apparenza; coniata dal romanziere Edward Bulwer-Lytton, l'espressione designa un'indefinita entità soprasensibile (e malefica) che si immagina essere associata allo spirito di ciascun essere umano. I teosofici come la Bailey sostengono che tale entità sia in realtà residuo di un'incarnazione precedente, incapace di soccombere anche quando lo spirito che la ospita è accolto in un nuovo corpo; nella canzone, Morrison si rivolge all'uditorio in prima persona e veste i panni di questa astrale creatura, che non ha alcuna intenzione di abbandonare la "soglia", l'uscio che ha scelto di abitare.
Il resto dell'album si mantiene su livelli altissimi, pezzo dopo pezzo: a cominciare dall'apertura di "Celtic Ray" in cui, sulla base di una sorta di "panteismo" naturale, si immagina l'Irlanda come una creatura viva che osservi i suoi "figli" dall'alto, e a loro rivolga messaggi attraverso la volta celeste; analogo immaginario celtico rivive in "Northern Muse", sulle vicende di una misteriosa signora che vaga per i campi della contea di Down (attuale Ulster), saltuariamente manifestandosi con fugaci apparizioni. "Beautiful Vision" e "Vanlose Stairway" sono sentite dediche alla danese Ulla Munch, fidanzata di Morrison all'epoca dell'incisione dell'album, mentre la splendida "Cleaning Window" (impreziosita, così come "Aryan Mist", dai luminosi e precisi interventi della chitarra di Mark Knopfler) è una curiosa parentesi di vita vissuta in cui il cantante riferisce del suo primo lavoro svolto in giovane età, quello di lavavetri. Il culmine di un'intensità interpretativa capace di pervadere l'intero album si raggiunge in "She Gives Me Religion", imperniata sul tema dell'amore "spirituale", e in "Across The Bridge Where Angels Dwell", ove ancora si aprono visionari squarci di misticismo, prima della chiusura riservata allo straordinario strumentale "Scandinavia", introdotto dalle soffuse note del sintetizzatore. I musicisti sono quelli abitualmente coinvolti nelle produzioni "morrisoniane" dell'epoca, dal bassista David Hayes al trombettista Mark Isham al sassofonista Pee Wee Ellis, passando per i batteristi Tom Donlinger e Peter Van Hooke.
La discussione relativa alle abbondanti tematiche affrontate in "Beautiful Vision" non si esaurisce di certo qui, lo scopo dell'attuale recensione è solo quello di stimolare il vostro interesse verso un album che (alla faccia di "Rolling Stone") merita - eccome - cinque stelle: inutili i raffronti con "Astral Weeks" e con i grandi lavori degli Ottanta, per tutti i motivi che ho spiegato anche quest'album è a suo modo un capolavoro, senza perdersi in graduatorie. Buon ascolto.
Carico i commenti... con calma