Sono devoto al vinile, al suo suono gracchiante e nobile, mi perdo talvolta ad osservare la puntina intercedere con tracotanza attraverso quella lunga spirale cava. Amo la fragranza stantìa e muffosa delle custodie capitate prima di me in chissà quali altre mani; quando ho sotto le fauci la ghiotta occasione ne acquisto a decine, in fiera o ai mercatini dell’antiquariato. Recentemente la mia attenzione è caduta su di un celebre sito di compravendita multimediale e mandato in porto l’ennesimo oculato affarone, mi perviene in blocco il pacco con una quindicina di long playing, tre di Van periodo “eighties“ tra i quali “Common one” pubblicato nell'estate del 1980. Cosicché mi precipito nel “fiko DeB” a tentar di carpirne qualche lungimirante informazione a riguardo, ma deluso e pervaso da un vacuum de profundis, non trovo una cippa del disco in questione. Piatto ricco mi ci ficco.

L’irish-folkman, dopo una raffica di opere autorevoli ed essenziali, composte tra gli esordi e la prima metà degli anni ‘70, si inoltra in una crisi professionale, nella quale partorirà un paio di snaturati dischetti di caratura eccessivamente commerciale rispetto ai suoi abituali cliché. L'appannata esperienza fu breve e nel 1979 inaugurò con “Into the music” una possente parabola di produzioni d’ispirazione mistico-introspettiva che lo condussero lungo gli anni ottanta ad una delicata ricerca di stili di matrice celtic e new-age, depenalizzandone l’ascesa nelle classifiche di vendita, ma rendendogli una posizione d’onore in una prospettiva musicale più astratta e meno convenzionale, seppur appagatamente godibile.

Mi sono abbandonato con estrema saturazione all‘ascolto di “Common one”, rimanendone pressoché estasiato dalla peculiarità e lasciandomi rapire da alcune suggestive inconsuetudini. La prima che riscontro è il luogo di registrazione delle tracce, ovvero uno studio in alta montagna ricavato all’interno di in un antico monastero francese. Questo particolare delinea la scelta di Morrison ad un ostinato e preteso isolamento da qualsiasi diversivo, immortalando questa situazione anche nella copertina che lo ritrae eremita e distaccato, percorrere un’aspra salita lungo selvaggi clivi distanti secoli dalla contemporaneità urbana. La sensazione che scaturisce il brano di apertura “Haunts of ancient peace” è quella di una carezza, di una brezza leggera, il basso è morbido, le chitarre armoniose, i fiati tenui e la voce accompagna con torpore l’ascoltatore, in un viaggio lungo la ricerca arcaica della quiete. La seconda “stranezza” sono le sei tracce, numero irrisorio rispetto alle precedenti produzioni, due delle quali dell’esauriente durata di un quarto d’ora cadauna (inconsuetudine numero tre): “Summertime in England”, è la prima delle due tracce estese, uno dei brani fondamentali del suo repertorio, che intriso di una luminosità rigogliosa e di un generoso ritmo, si separa momentaneamente dalla cheta spirale, esaltando con un testo enciclopedico l’incantevole cornice agreste britannica ed evocando le proprie passioni culturali, così che il paesaggio circostante tende a tingersi romanticamente delle oniriche essenze di Joyce, Wordsworth, Eliot, Blake, Yeats e Coleridge, dipanando il fondale in un tripudio di gioviale silenziosità. L’itinerario procede con “Satisfied”, “Wild honey” (che apre la seconda facciata) e “Spirit”, staccandosi in toto dalla superficialità e abbracciando sobriamente una catena di argomentazioni pregne di dolce desolazione e redenzione morale. I brani sono vestiti da velature d'organo e di pianoforte, ancora in balìa di eleganti trombe, soavi corni e delicati sassofoni, solennemente capitanati da Mark Isham e Pee Wee Ellis. Nel finale entra in scena "When hearts in open" avvolgendo la mente con una seducente ipnosi; si tratta dell’altro brano di poderosa estensione che ha il compito di ostruire le vie della perdizione e del tormento, concedendo un quarto d’ora di pura mitigazione. Il cuore è aperto mentre cerchio si chiude.

Van gigante e trascendentale che pone innanzi un disco complesso, profondo, versatile, cocciutamente e intelligentemente estremizzato rispetto al precedente e ai successivi, non per questo inferiore, ma palesemente imponente, catarsico e ricco di un fascino ineluttabile. Opera inestimabile e granitica di un Morrison non propriamente aperto melodicamente e non ancora votato all’ausilio delle sfumature “sintetiche” di tastiere ed elettronica, che con accuratezza e fruibilità accompagneranno lungo il decennio appena sorto i lavori seguenti.

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