Ci sono certi artisti che, troppo attaccati ad un successo facile, magari trainati da un primo, celebre debutto, tentano di rimanere malamente a ciondolarsi sulla cresta dell'onda, non modificando troppo il proprio stile, restando, alla bell'e meglio, sempre lo stesso personaggio dell'esordio.
Questo era successo alla Carlton, che, sotto il patrocinio della A&M, un decennio fa (ecco come accorgersi di essere invecchiati) aveva pubblicato uno dei maggiori successi del decennio da poco terminato, "A Thousand Miles". Davanti ad una tale valangata di soldi, alla casa discografica non parve vero di aver azzeccato il personaggio: una ventiduenne pianista, dalla voce candida e frizzante, che, messa mano al suo strumento, sfornava momenti di puro pop per masse, con un'aria, eppure, così indie. Ascoltare la Carlton, divenne, dunque, cool. Era, sì, pop, di quello fatto con zucchero filato e coloranti artificiali, ma senza che tu davanti al suo personaggio un po' bohemièn potessi sospettarlo minimamente.
Così, dopo un album quasi indecente come fu il debutto "Be Not Nobody", uscì, sulla stessa linea di pensiero "Harmonium", senza, però, riuscire a riaccontentare le masse come nel primo capitolo. E c'era, in effetti, qualcosa che non andava in quei dischi. C'era qualcosa di finto, di costruito a tavolino. Era come se la Carlton, apparte in rarissimi momenti, fosse costretta a piegare la testa e a dare forma unicamente a qualcosa di finto, di diretto unicamente al popolo commerciale privo di grandi aspettative. Come un uccello in gabbia, che vorrebbe volare via, ma è obbligato a soffocare i propri istinti, costretto in una gabbia troppo stretta per lui.
Stessa sorte toccò al seguente "Heroes And Thieves", nonostante il cambio di etichetta. Fu come se il cambiare "casa"verso la INC Records (inspiegabile il passaggio all'etichetta famosa per artisti perlopiù hip-hop) fosse inutile. Ormai la Carlton era incasellata da produttori e pubblico, e dalle registrazioni tutti si aspettavano un preciso tipo di prodotto.
Ed è così che arriviamo a "Rabbits On The Run", la quarta fatica della cantautrice.
Mettiamola così: avrebbe potuto intitolarlo "liberazione". Esordirei dicendo che questo è, senza dubbio, il miglior disco della cantante; e tutti risponderanno "bè, dopo le schifezze che ha prodotto in passato, ci voleva poco". E invece no: innanzitutto, non tutte le divette odierne, per amore della propria arte, avrebbero mollato, per la seconda volta, una casa discografica, per comporre e registrare un nuovo disco unicamente sulle proprie spalle. Esatto, perché il disco è, per la prima volta, scritto interamente dalla sola Carlton (con l'incursione, in due tracce, dell'amico Ari Ingber), nonché registrato indipendentemente, per poi venire presentato, una volta finito, alla piccola Razor & Tie Inc.
Ed è così, che scopriamo finalmente chi è Vanessa Carlton. E' una racconta-storie, una donna misteriosa, che, avendo finalmente il potere decisionale nelle sue mani, decide di non apparire in copertina, e sceglie il titolo "Rabbits On The Run", pressoché creato a pennello per questo disco dalle atmosfere un po' autunnali, perfetto per una passeggiata in un parco di novembre, dagli alberi caduchi, subito dopo una lunga pioggia.
Mai avremmo potuto sperare in un singolo come "Carousel", prima di adesso, o in tracce come "Hear The Bells" o l'ipnotica chiusura "In The End", e se tra le 10 tracce, in brani come "Dear California" e, su tutti, "Tall Tales For Spring" si può sentire un vago eco dei dischi precedenti, questa volta, perlomeno, è del tutto genuino.
L'album, continua imperterrito, perfettamente naturale, mai esagerato. Non ha bisogno di essere spinto, è semplice, coinciso, ma interessante. E, se anche non è stato un grande successo nelle charts americane, stavolta ho voglia di sentire cosa ci attende nella prossima pagina di una carriera appena cominciata.
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