Della poliedricità dei Vanilla Fudge abbiamo come dimostrazione il primo album omonimo, intriso di eccelse cover che andavano dai Beatles a "Bang Bang" fino alla celebre "You Keep Me Hangin' On". Il camaleontico "The Beat Goes On" dell'anno seguente, 1968, riproponeva altre cover dei Fab Four esplicate in modo imprevedibile e addirittura il sensazionale rifacimento di "Fur Elise". L'alba, anche in alcuni casi acerba, dell'era progressive.

Nel periodo della contestazione si ha pure il primo lavoro contente tutti brani firmati dal quartetto, anzi no, c'è "Season Of The Witch" ad alzare il livello (rifatta anche da Bloomfield, Kooper & Stills). Il sound che propone la band in questo "Renaissance" è valorizzato dall'Hammond di Mark Stein e dall'imponderabile basso di Tim Bogert, che inaugura le scorribande delle quattro corde di Hugh Hopper. Non ci dimentichiamo però anche delle mazzate di Carmine Appice, che nel successivo "Near The Beginning" avrà la sua consacrazione.

Insieme a Procol Harum e Moody Blues è il gruppo che inaugura le prime complessità sonore del rock, del beat, della psichedelia (anche se non si possono snobbare gli americani Red Krayola). Comunque l'assetto e gli stilemi dei Vanilla influenzeranno certamente i connazionali Uriah Heep. I cori estatici che fluttuano sulla sospensione ultraterrena, celata delll'Hammond è il marchio di fabbrico di Stein e compagni. Ma fanno ben capire che bisogna picchiare soprattutto duro nei live, ed ecco infatti arrivare i vari Grand Funk Railroad, forse però più amanti dei Creedence..

"Near The Beginning" è l'album del 1969 che chiude il periodo d'oro della band, prima di sciogliere il progetto con il "caciarone" "Rock & Roll". Con "Near The Beginning" si ha una maggiore libertà dei singoli elementi, più individualità e l'esperienza che serve per sfornare un capolavoro con quattro tracce. L'inizio è affidato alla cover esplosiva di "Shotgun" del dimenticato Junior Walker, che sarà presente perfino nel sax di "Urgent" dei Foreigner, e la rielaborazione non lascia scampo a pause. Dritti come un treno per sei minuti guidati dal basso irrefrenabile di Bogert e dal rullante di Appice che alza bandiera bianca.

"Some Velvet Morning" è il gioiello della band, della musica in generale e degli anni Sessanta. Ovviamente anche questa è una cover, che porta la firma di Lee Hazlewood. Ma come l'hanno partorita i Vanilla è qualcosa di unico. Ancora oggi ho il 45 giri di papà con "People" come lato B, ma quel soffuso inizio di Hammond a mò di marcetta che viene rotto dallo straripante attacco di tom e chitarra non me lo leverà nessuno dalla mente. La cover migliore di questo brano, riproposta successivamente da mille artisti, tanto che la rifaranno perfino gli shoegazer Slowdive. La coralità raggiunge picchi divini, sembra tutto così facile ma nello stesso tempo impensabile. Le sublimi variazioni ci accarezzano in questo viaggio troppo breve, troppo raro.

Dopo questa il resto sembra niente. "Where Is Happiness" chiude il lato A, mentre il lato B è occupato dai venti minuti live di "Break Song". La prima riprende il suono crepuscolare e "dark" di "Renaissance". Si dà sfogo principalmente alla chitarra di Vince Martell, personaggio purtroppo dimenticato e mai glorificato da nessuno e in nessuna decade passata. "Break Song" è la loro "Do What You Like". Non credo si arrivi alla maestria dei Blind Faith, ma Appice ci dona un virulento assolone dietro le pelli, mentre il resto è jam (e ti pare poco..)

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