Sapendo che musica può girare in discoteca e che tipo di persone la varcano, potrei immaginarmi uno di questi luoghi funerei dove la luce sfarfalla a ritmo di grancassa nei tempi preistorici. Rudi cavernicoli dalla postura incerta che scimmiottano lo scimmiottare delle scimmie, che alzano le mani al cielo e gridano “Maughaugha”. Non ci sono sintetizzatori iper-spaziali che strangolano le sinapsi, le tastiere sono lugubri e tetre, creano paesaggi asfissianti e spigolosi. Il ritmo non è da Raver ma comunque agita gli arti e l'ossessività musicale e vocale entra lisergica nelle orecchie. L'inganno sonoro portato dai Var viene alternato da paesaggi elettrici quasi aritmici, come pause rinfrescanti tra una danza industriale e l'altra.
L'inganno questa volta lo porto anch'io. Mi sarebbe piaciuto volare ad altezza nuvole tra questi spettri martellanti e ambienti vibranti, ma di mezzo viene messo in quantità “industriali” (ho fatto pure la battuta), le sonorità tipiche dell' indie rock degli anni '10, dolci nenie e cadenze più lente da ballatona post-atomica, anche nei pezzi ignoranti dove ci si sarebbe aspettato ancor più ignoranza, entrano sospinte dal un vento impetuoso corni e trombe e/o le tipiche chitarrine riverberate che ci hanno accompagnato quasi alla nausea in questi tempi recenti.
Faccio il Silvio di turno e mi rigiro da solo la frittata: il miscuglio di suoni ne esce comunque forte, la pesantezza completa una chitarra un po' insipida, che ha il suo punto di forza nella sua semplicità.
Un sound elaborato ormai da lungo tempo da questa scena Post-Punk Scandinava che si sta espandendo a macchia d'olio anche negli ascoltatori meno affini. La tipica voce sporca e anestetizzata che non lascia molto spazio alla ferocia; l'incubo di sognare il proprio futuro roseo e svegliarsi nel pessimismo di tutti i giorni.
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