Hey hey, my my, Rock and roll can never die” cantava Neil Young nel 1979, e se ce lo diceva lui, c'è da dargli retta. Ma il dark, mi chiedo, potrà mai morire?

Son pensieri, questioni che sorgono nella mia mente tutte le volte che mi avvicino a realtà spudoratamente revivalistiche come questi Var. E di fronte a lavori come “No One Dances Quite Like My Brothers” la risposta è: no, il dark non potrà mai morire, almeno finché esisterà una società industrializzata ed alienante, fatta di tristi sobborghi, ed essa ospiterà in sé giovani insoddisfatti e senza speranza.

Musica del disagio e della disintegrazione, “l'invenzione” di Ian Curtis e Joy Division, lo sviluppo di quell'idea da parte di Robert Smith e The Cure, opere come “Seventeen Seconds”, “Faith” e “Pornography” non sono la sola espressione di sentimenti appannaggio esclusivo di una generazione di “scapestrati” vissuta a cavallo fra gli anni settanta e gli ottanta, ma uno stilema a tutti gli effetti, un cliché se vogliamo, uno “spirito”, un'attitudine utilizzabili nel corso del tempo e declinabili in nuove forme, anche perché da allora ad oggi il mondo (occidentale) non è di certo migliorato.

Sempre seguendo le parole del Neil Young, “The King is gone (Elvis Presley – n.d.a.) but he's not forgotten, this is the story of Johnny Rotten”: versi emblematici che sanciscono il passaggio di testimone dalla vecchia scuola alle nuove leve. Versi che non cito a caso, dato che proprio nella figura del sig. John Joseph Lydon, prima voce leggendaria degli altrettanto leggendari Sex Pistols, poi membro di spicco del seminale progetto post-punk Public Image Ltd, possiamo scorgere delle assonanze con il profilo del non-eroe, ridimensionato ai nostri tempi di mediocrità imperante, Elias Bender Ronnenfelt, già ugola infuocata degli Iceage, gruppo del momento in area punk e derivati, ed adesso coinvolto in questa nuova avventura di emancipazione dal verbo punk, i Var (con il pallino sulla A), nati come duo e già attivi come War: niente meno che una bella sbandata verso lidi dark-wave e synth-pop, progetto che vede la presenza fra i suoi ranghi, oltre che del co-fondatore Loke Rahbek (direttamente dai Lust of Youth), di altri personaggi più meno noti dell'attuale scena post-punk danese (Kristian Emdal dei Lower e Lukas Hojland dei Pagan Youth). La visibilità da essi ricevuta grazie ad un'etichetta con l'occhio lungo come la Sacred Bones, ne fa se non altro un fenomeno meritevole d'attenzione.

Il suono mesto dei violini sintetizzati in loop sopra una base di funeree trombe e i colpi dei tamburi dell'apocalisse ricordano un po' i Coil, e da questo capiamo due cose: la prima è che non ci troviamo innanzi ad una laccata cover-band di Joy Division/New Order (tipo Editors, tanto per capirci); la seconda è che la proposta potrebbe essere veramente interessante, se il synth-pop dei Var decide di ammantarsi di atmosfere plumbee e vischiose nebbie industriali, ed ama per giunta danzare al passo di percussioni dal retrogusto marziale. Proseguendo con l'ascolto dell'opener “Begin to Remember” capiamo altre due cose: che i Coil dobbiamo toglierceli dalla testa perché i Var non sanno suonare un cazzo e Ronnenfelt continua ad essere stonato come una campana; l'altra cosa però è che la musica dei Var è sì semplice ma efficace, concreta, porta con sé un fascino discreto, quasi underground, scava nel profondo e – posso dirlo? - trasmette un reale disagio: un nichilismo, una fragile malinconia, l'idea di un requiem per anime sconsolate che richiama alla mente i capolavori del genere degli inizi degli ottanta, il loro spirito inossidabile. Inutile girarci intorno, siamo dalle parti di “Seventeen Seconds” e “Faith” (tutt'al più con qualche eco evocante i primi Depeche Mode ed ovviamente i più tunzerecci New Order, con qualche fiammata dell'EBM che seguirà), e se “No One Dances Quite...” fosse uscito trenta anni fa sarebbe un lavoro importante, sicuramente da inserire negli annali. Ma poiché esce nel 2013, va preso per quello che è: semplicemente un bel disco, una prova significativa.

Tac! Tutti pronti con il fucile a mirare contro Ronnenfelt, che certo di suo non brilla per la simpatia, e con il peso del clamore eccessivo suscitato intorno al fenomeno Iceage che aveva indispettito qualche purista del genere, ed ecco invece che i quattro ragazzi di Copenhagen ti scrivono al loro esordio (forse acerbo, confuso, ma incisivo come pochi altri) una delle pagine più belle in materia dark-wave degli ultimi tempi. Derivativo senz'altro, eppure sentito, straniante, sfibrante, questo “No One Dances Quite...”, in grado di suscitare reali emozioni, tutte ovviamente di segno negativo. Lo stesso Mementomori (the king of darkness & evil) proprio non jel'ha fatta ad ascoltarlo d'estate, gliela rovinava l'estate, gli metteva angoscia, non so ragazzi, capita anche ai più duri.

E così si parlava di “Begin to Remember”, sintetizzatori glaciali e desolazione a go go, un'iniezione di disagio adolescenziale nord-europeo non indifferente, pur nella sue estrema brevità: del resto l'album stesso supera di poco la mezzora, evidentemente i Var non hanno bisogno di un elevato minutaggio per colpire nel segno, anzi, forse proprio questo procedere per discorsi fugacemente abbozzati, bruscamente mozzati, interrotti dopo notevoli prologhi, contribuisce a seminare quegli elementi di disturbo che rende l'ascolto un'esperienza amara. Oltre ovviamente ad una produzione perfettamente approssimativa che equalizza i suoni in un suggestivo impasto in cui è difficile riconoscere il contributo dei diversi strumenti. Con i beat incalzanti della successiva “The World Fell” la musica cambia: siamo catapultati in palesi territori neworderiani e già capiamo che i Var non sono solo lagna ma anche discoteca (ma una disco in cui tira aria da funeral party), con sintetizzatori e drum-machine in primo piano, tradendo così la natura originaria di duo, e lasciando basso e chitarre a strisciare fra le note come un impalpabile ronzio che ispessisce un sound che spesso ama abbandonarsi alla dimensione ambientale. La voce di Ronnenfelt si fa oscura e tenorile come richiesto dal contesto (in più di una circostanza verrà in mente Robert Smith), ma non perde quella ruvidità e quel che di sguaiato ereditati dal punk di cui è più che degno interprete nei suoi Iceage (sarà forse semplicemente stonato?). Poco altro da aggiungere: tutto gira come dovrebbe, tant'è che è più facile accettarli, questi Var, che stare a fare i puntigliosi.

La title-track, che rasenta la deriva dronica, densa di scricchiolii industriali e sferzate di gelidi synth, ci conduce verso lidi badalamentiani (sarà probabilmente l'onirico recitato femminile che ricorda un po' la Julie Cruise di “Twin Peaks”), a rimarcare le due anime della band, perennemente sospesa fra la dark-song danzereccia (“Motionless Duty”, “Pictures of Today/Victorial”, “Into Distance”) e l'incubo ambientale (“Hair Like Feathers”, “Boy”), anche se in entrambi casi i Var poggiano saldamente il proprio baricentro sulle lezioni impartite dalla band di Robert Smith. La lacerante “Katla” chiude il cerchio passeggiando nuovamente sulle note dolenti delle trombe, facendo il paio – quanto a strutture ed umori (il passo funebre delle percussioni, un urlo strozzato che si perde nella lontananza reiterando la solita frase) – con il brano che aveva magistralmente aperto l'album, lasciando la sensazione all'ascoltatore che forse i Var sono l'espressione del miglior dark possibile oggi, almeno nella sua accezione classica, quella delle origini: cruda, emotiva, viscerale, avulsa dalle kitschate tipiche di certa paccottiglia gotica che si spaccia oramai da troppo tempo come dark.

Ma se vogliamo concludere rimanendo in tema di profezie, allora concedete di esprimere due parole anche a me, anche se non ho l'autorevolezza di Neil Young: Iceage e Var sono una fiammata che presto si estinguerà. E non solo perché i tempi son cambiati e il modo di fare (e vendere) musica è cambiato (tutto oggi è hype, tutto è destinato a bruciarsi e perire nel lasso di un istante: una bulimia musicale costantemente alla ricerca di nuove sensazioni che fagocita artisti e opere alla velocità della luce e che ammorba sia l'industria discografica che la stessa audience a cui questi prodotti sono indirizzati). Evidentemente la longevità non è più cosa che riguarda gli artisti contemporanei (ditemi voi, salvo eccezionali eccezioni, chi oggi regge con gli smalti degli inizi oltre la terza prova!), e quindi non facciamoci un cruccio fin da adesso, non fasciamoci la testa prima di rompercela, se i fenomeni del momento probabilmente non vedranno il domani: godiamoci il presente, cogliamo ciò che di meglio esso è in grado di offrirci in questo mare di merda e sopprimiamo la pulsione di voler guardare per forza al futuro.

Ma non è solo per queste ragioni, si diceva, che Iceage e Var avranno vita breve: il fatto è che se prendete un giovanissimo cantante, diciamo un moccioso, e lo mettete di colpo innanzi ad un discreto successo, tempo massimo due anni questo non sarà più in grado di tenere il microfono in mano. E se vi viene in mente, guarda caso, proprio Elias Bender Ronnenfelt, uno che non regge mezzora di concerto e che già nei primi tour con gli Iceage si è visto costretto ad abbandonare il palco (o nemmeno a salirci) per aver un “po'” esagerato con i suoi vizietti, l'allusione non è per niente casuale. Ci sarà anche del marcio in Danimarca, ma se dalla luce dei riflettori è uscita persino l'Islanda, che ha sfornato i migliori artisti a cavallo fra novanta e duemila, non penso che a questa “primavera danese” seguirà una florida estate.

Out of the Blue, into the Black.

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