Sono poveri, perdenti, ubriachi, strafatti di antidepressivi, hanno perso mogli/mariti e sono diventati obesi, cantano come tristi copie-carbone della controfigura dell'ultimo Elvis, seduti su un cesso d'oro con le mani tra i capelli unti, in giorni squallidi come quello di Natale.

C'è qualcuno piange nel retro di un bar di infima classe ogni volta prima di salire sul palco, ha il trucco colato per le lacrime e le paillettes sul vestito rovinatio  sono come stelle esplose, e sistematicamente c'è qualcuno che lo convince a salire e cantargliela, infondendogli quella pervicace idea di resistenza musicale sui generis che rende ogni  comune pista da ballo bluegrass scivolosa, buia e sporca.

Shelby Singleton Jr. è un cittadino americano che si è dedicato con indimenticato successo all'arte della produzione musicale. Bazzicando nei più infimi baracconi della musical industry rockabilly anni '50, ha trasformato miserabili underdogs in plausibili manifestazioni idealtipiche di quella che, con fisiologica imprecisione potremmo definire "Country Music". Ma questa è la libera impresa, il puro sogno americano in azione. Come una versione cowboy di Meek, Singleton è il re mida-outlaw, mad scientist a-là Jerry Lewis, una specie di missionario del country con un'idea di evengelizzazione canzonettara e socialista della massa bru(t)ta che popola le baracche di tutto il paese ed uno straordinario senso dello humor, derivato necessario della grande libertà artistica della quale ha potuto godere in un paese dove, dopo tutto non è un vilipendio fare covers di Terry Nelson accompagnandosi con il sitar o darsi nicknames come "Johnny Credit" o "Tom sawyer".

Quale che sia il vero significato di tutto questo, rimane il fatto che tra 300 milioni di persone ci sono storie, tese a collegare ogni disgrazia a ogni miseria come interminabili linee del telegrafo e capaci di rendere chiaro il messaggio della vera natura "popolare" ed egualitaria della musica. E' la storia di The King of comedy, il destino che racatta mezzadri, scansafatiche, cacciatori di opossum, figli della guerra, hobos, ragazze obese che stendono grizzlybear con l'alitata e li trasforma in disperati cloni di Gene Vincent che croonerizzano su auto di seconda mano, alter egos di Pate Ray bambino vestiti da landlord in mezzo ad un disastro ferroviario che prendono l'autobus per la scuola in una polverosa mattina della Virginia o Facenda Tommy "Bubba Clapper Boy" in un romantico amplesso anni 50 con una capellona permanentata avvolta in un budello di jeans che canta i cori della mensa scolastica. Siamo a migliaia di miglia dalle luci scintillanti di Nashville e da ogni romantica visione dell'America rurale tipo Forrest Gump. Qui c'è polvere neon lights e cheap beers su di uno sfondo post atomico da boom dei tardi 50, non ci sono nè pane nè burro ma LSD, codeina, hedge found falliti, mutui da pagare, inodndazioni  e fondi di Long John.

Ecco cosa succede quando l'arte non ha cappi e laccetti: fluisce, come le strade, le auto e, ancora prima le mandrie su e giù per il continente.

Che queste preghiere vadano a chi ha trascorso l'intera notte cercando di spiare la sua vicina, scrivendo canzoni d'amore, attraversando 10 stati, bevendo migliaia di bidweiser, travestito da pollo per il baseball, scrivendo lettere, sparando a nemici immaginari in giro per il mondo, ridendo e crepando sul ciglio della stessa miserabile interstate.

In god we trust. 

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