Per molti l’ultimo Vasco degno di nota. Il testamento spirituale del primo periodo, quello rockcantautorale, quello vero. Quello dove conta più la libidine che il contratto. Sicuramente, dopo, Vasco diventerà il monumento di se stesso, e qualche volta la caricatura di se stesso, alternando guizzi di genio (“Sally”) e colpi d’ala (“Gli Angeli”) a un sacco di brani-riempitivo, roba studiata a tavolino per far saltare ragazzini nel campo dove il Giocatore gioca meglio, ovvero il live, gli stadi, quelle cerimonie collettive che entusiasmano un’infinità di gente e ne fanno incazzare quasi altrettanta.
Dopo “Bollicine” ci sarà quello che io realmente giudico come il vero testamento spirituale dell’Uomo di Zocca, che, come spesso accade, è un “live” (ovvero “Va Bene Va Bene Così”, disco breve, sintetico, molto simbolico nel suo chiudere –consapevolmente?- un periodo per aprirne un altro che, forse, dura tuttora). Con “Bollicine” però siamo lì, a un passo dalla svolta (che forse più che una svolta è un’inversione a “U” su una strada diversa, decisamente in discesa…), ma dentro ci sono ancora un sacco di idee vere, c’è un’infinità di musica nuova. Sì, perché anche i più accaniti detrattori di Vasco non hanno mai saputo rispondere con elegante chiarezza a una domanda semplice, ovvero “da dove Vasco ha preso brani come “fegato spappolato” , “giocala” o “siamo solo noi”?”. Sì, uno può buttare lì una decina di nomi, come si fa per il miglior Prince, ma l’onestà sta nell’ammettere che Vasco ha saputo mescolare, come un cuoco geniale, un’infinità d’ingredienti, senza clonare nessuno e senza darsi ad inutili plagi, almeno allora. Questo, poi, è un disco/monumento agli anni ’80, che degli ’80 ha il suono, ha i tempi ed il tempo. Degli ’80 c’è l’atmosfera. Tutta. Allora eran giorni di 45 giri e ancora di juke box. E non è una nostalgia fine a se stessa. Ma, e mi rivolgo a chi c’era, buttare quelle 100 lire là nel juke box e sentirsi “Vita Spericolata” era una sensazione mica male, come lo era sentire “Cant’Appress’A Nuie” di Bennato, “Una Giornata Uggiosa” di Lucio o persino “Stella Stai” di Tozzi, solo pochissimi anni prima. Era musica che girava intorno, vero, ma girava bene.
E qui Vasco costruisce il suo tributo agli eighties probabilmente d’inerzia: molti usavano quei suoni lì, si abusava del tastierone e se assolo doveva essere era più facile fosse di sax che di chitarra, spesso. Insomma, tempi lontanissimi dal chitarrismo obbligatorio degli ultimi 10/15 anni. Sentite con attenzione “Deviazioni”, assolutamente in questa versione, e non nelle tre dei live successivi. Avrete una lezione di livello universitario di ciò che potremmo definire “l’arrangiamento eighties”. Così come anche la title track, brano allora e sempre contestatissimo, sia nel fare il verso surrettizio alla cocaina che nel fare quello esplicito alla coca cola. E già si capiva quanto Vasco fosse furbo, ed avesse precisissimo in sé il concetto di provocazione. Molti ci caddero e ci cadono ancora, regalandogli un’infinità di pubblicità gratuita. Lui se la ride e ringrazia. Ma allora, almeno, scriveva ancora. E scriveva alla Vasco: il linguaggio apparentemente semplice. Le frasi spezzate, un’infinità di puntini di sospensione, per cercare di rendere, nelle copertine dei 33, nello scritto l’atmosfera del parlato e del cantato. Il clima e gli arrangiamenti sono piuttosto uniformi, e i brani si seguono come se, almeno a livello “estetico” vi fosse un filo conduttore che unisce tutte le canzoni dell’album. Tutte tranne l’ultima, quella “Mi Piaci Perché” che sembra tratta dalle session del precedente “Vado Al Massimo”, ma che regala un testo meraviglioso che esemplifica, senza mezzi termini e senza alcun buonismo di facciata, la coglioneria del maschio di fronte alla donna (che piace perché è sporca, porca, bugiarda, bastarda, perché è donna e perché c’ha la gonna, ovvero un compendio di cosciente cretineria ancor oggi poco capita, o scambiata, come direbbe Conte, per “vera cretineria”).
Due ballate che resteranno sempre nel suo repertorio e nell’immaginario di alcune generazioni, come “Vita Spericolata” (provvidenziale insuccesso sanremese) e “Una Canzone Per Te”. Insomma: Vasco. Chi lo odia dirà che è merda. Chi lo amava dirà che era ancora bellissimo, e chi lo ama dirà che è bello come tutti gli altri. È una storia semplicemente infinita e irrisolvibile. Fatto sta che alcune frasi rimangono e segnano, che tu voglia o no. “corri, e fottitene dell’orgoglio…”
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