Forse una presa di posizione, forse una sarcastica invettiva, forse un’ironica citazione. Forse un’approvazione e forse una contestazione. Forse disapprovata retorica o forse una manifesta ribellione.
Chissà cosa aveva in mente Vasco Rossi quando si trovò a dover dare un titolo al suo primo LP.

Nel bel mezzo degli anni ’70, e più precisamente nel triennio ’75 – ’78, il giovane Vasco, poco più che ventenne, ha un bel daffare tra una vita da playboy di periferia, la composizione delle prime canzoni, e la gestione della leggendaria Punto Radio (la cui morte, e quella di tutte le radio libere, vendicherà qualche anno più tardi in “Ultimo domicilio conosciuto”.
Alla noia di Zocca e delle discoteche emiliane frappone l’ascolto del rock e dei primi cantautori: ed è così che, cominciando a scrivere le canzoni che finiranno nel suo primo album, mescola esasperazione rock, avventure amorose e impegno politico e sociale. Nasce in questo modo "…Ma cosa vuoi che sia una canzone". L’ibrido che viene fuori dalla commistione dei sopraccitati temi rappresenta certamente un unicum nel panorama musicale italiano dell’epoca, anche se il modo di cantare di Vasco fa per certi versi pensare a Rino Gaetano.
Ma Vasco è meno ironico, più duro, e non utilizza luoghi comuni, filastrocche e apparenti non – sense sui quali Gaetano giocava. La noia e l’urlo, la paura di una vita normale e della routine quotidiana sono immensi ed esplodono nel desiderio di una “vita spericolata”, nella voce dura e calda, dolce e aggressiva, commossa e ironica, ma sempre sincera, di cui è capace solo quel «ragazzo qualunque, uno dei tanti giovani, finito per caso sul palco».

A Gaetano Curreri il compito di “vestire” le otto canzoni dell’album, compito che viene svolto in maniera quantomeno eccelsa; basta ascoltare “La nostra relazione”: vengono utilizzati moltissimi strumenti, ma senza andare a discapito della carica emotiva, e anzi aumentandone spasmodicamente la forza, nonostante la semplicità del giro armonico sul quale è costruita la canzone, storia di un amore esaurito e della paura di lasciarsi, per limitarsi a «vivere / nello stesso letto / un po’ per abitudine / e forse un po’ anche per dispetto».
Non so se oggi manchino autori come Vasco, o se ci sia carenza di arrangiatori e musicisti del calibro di Curreri (o se siano estinte entrambe le categorie); ma una canzone costruita prevalentemente su due accordi qual è “…E poi mi parli di una vita insieme” è immensamente interessante soprattutto se paragonata agli informi ammassi di gelida musica di cui le canzoni di oggi sono costituite, coi loro tappeti di strumenti unisoni; mentre Curreri riesce a far risaltare ogni singolo strumento, pur adoperandone parecchi (a questo proposito, interessante ascoltare la parte di basso), e Vasco si lancia nella declamazione di una serie di versi che a stento riescono a entrare nella ritmica della metrica, ricordando, soprattutto a fine canzone il Rino Gaetano di “Sfiorivano le viole”.
“Silvia” e “Tu che dormivi piano (volò via)” sono due canzoni, rock, ma anche delicate, che nascono dall’osservazione dell’universo femminile studiato nelle occasionali compagne di Vasco, con interessanti assoli di moog mentre la lunga “Jenny è pazza” trasuda impegno sociale, denunciando l’emarginazione che colpisce i membri più deboli della società, e il trattamento che la stessa riserva loro; ad accompagnare, prevalentemente pianoforte e tormentate chitarre elettriche. Infine, dopo la piano honky tonk – batteria asciutta “Ambarabaciccicoccò” (feroce presa in giro dell’uomo che non essendo riuscito a realizzarsi vive una vita banale e trova rifugio nel partito) e la torrida “Ed il tempo crea eroi” trova posto un piccolo gioiello, “Ciao” un pezzo senza canto per solo piano, un malinconico saluto su atmosfere di settima, un groppo in gola e un sussulto nostalgico del cuore.

Un arrivederci di Vasco al giorno in cui sorgerà finalmente un’albachiara.

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