Quanto può durare una stagione? Dipende, dalle coordinate spaziali e temporali.
Per dire, nel 1968 a Praga la primavera si protrasse per oltre sette mesi.
Tanto che questo eccezionale fenomeno venne testimoniato in un manifesto, quello delle duemila parole, che così chiudeva: «Questa primavera ci è stata data di nuovo una grande occasione, com’era già accaduto alla fine della guerra. Abbiamo di nuovo l’opportunità di prendere in mano la nostra causa comune, definito provvisoriamente socialismo, e di darle un volto più appropriato alla nostra reputazione, un tempo buona, e alla discreta opinione di noi stessi che eravamo soliti avere».
Seguivano settanta firme, quelle di intellettuali, registi, attori, sportivi.
Tra queste, la firma di Vera Čáslavská.
In quella primavera del 1968 Vera aveva 26 anni, era una ginnasta ed aveva staccato il biglietto per Città Del Messico, dove ad ottobre avrebbe partecipato ai giochi della diciannovesima Olimpiade, in tutte le specialità femminili della ginnastica artistica. Quella sarebbe stata la sua terza Olimpiade.
Si mise in luce nel 1960 a Roma, conquistando la medaglia d’argento nella competizione a squadre, ma si impose alla ribalta del mondo quattro anni dopo, a Tokyo, conquistando tre medaglie d’oro individuali ed una d’argento ancora nella competizione a squadre.
Era la nuova stella della ginnastica femminile.
In quella primavera del 1968, Vera aveva lasciato Praga insieme a tutti gli altri atleti della squadra nazionale per sostenere le ultime sessioni di preparazione sulla strada verso Città Del Messico.
Accade talvolta che le stagioni non seguono il corso della natura. Era il 20 agosto quando la primavera cedette il passo all’inverno ed ai cingoli dei carrarmati. I carrarmati erano venuti per annunciare l’inverno, ma pure cercavano le mani che avevano vergato una firma in calce al manifesto delle duemila parole.
Tra queste, la firma di Vera e di Emil Zàtopek.
Emil si precipitò a Praga. «Vi hanno mandato a schiacciare una controrivoluzione che esiste solo nella fantasia di pochi individui indegni di chiamarsi socialisti. I carri armati non sono una testimonianza di democrazia. Andatevene!». Queste le parole che rivolse in russo ai fratelli socialisti che conducevano quei carrarmati.
Ma il finale fu diverso da quello che il Maestro Sergej Ejzenštejn impresse sulla pellicola de «La Corazzata Potëmkin». I carrarmati non abbandonarono Praga e chiusero nel sangue la primavera.
Le mani di Emil erano tra quelle che avevano vergato una firma in calce al manifesto. Perse i gradi di tenente colonnello e fu espulso dall’esercito. «Per aver diffuso notizie false e aver tenuto una condotta contrastante con gli ordini del ministero». Fu espulso dal partito. «Per non aver compreso i problemi di fondo del marxismo-leninismo e dell’internazionalismo proletario». Fu condannato a lavorare in miniera.
Emil resistette per tre anni prima di cedere alle pressioni ed abiurare. «Sono addolorato per essere stato tra coloro che avventatamente hanno versato olio sulle fiamme. Queste fiamme avrebbero potuto divampare e mettere in pericolo il mondo socialista. Ho avuto l’opportunità di rendermi conto su che cosa avevo visto giusto e su che cosa avevo visto sbagliato. Perché quindi dovrei oppormi a questo regime?». Questo il comunicato che apparve su Rude Pravo, organo del partito comunista.
L’abiura procurò ad Emil l’impiego presso il centro di documentazione sportiva di Praga. Dopo un congruo periodo di rieducazione, fu riammesso nel partito il 19 settembre 1977.
Vera era fuggita in montagna, come una partigiana. Per continuare il suo allenamento sulla strada verso Città Del Messico. Prati, rami, legname furono la sua palestra ed i suoi attrezzi.
«Dopo quanto avete fatto, non potete più inviare una delegazione di atleti alle Olimpiadi di Città Del Messico. Per voi le Olimpiadi sono terminate qui, a Praga». Così aveva decretato quella stessa mano che con un banale tratto di penna aveva messo in marcia verso Praga i carrarmati.
Ma non ebbe la forza di fermare Vera. Che aveva firmato il manifesto e non lo aveva abiurato. Ed il 10 ottobre 1968 si imbarcò per Città Del Messico.
Sarebbe stata rieducata e la sua colpa l’avrebbe scontata al ritorno a casa. Perché sarebbe ritornata.
Quando sbarca a Città Del Messico, il giorno della cerimonia di apertura dell’Olimpiade, Vera è distrutta, moralmente e fisicamente. È consapevole che in Cecoslovacchia l’inverno è calato prematuramente e sarà durissimo. Le sue mani, i suoi piedi sono piagati da callosità dolorose, il suo corpo è rigonfio di lividi.
Vera non demorde.
Gareggia in ogni specialità. Ha il potere di incantare. Vera non è una ginnasta piuttosto un’artista. Quando volteggia, volteggia come la première ètoile del più prestigoso teatro d’opera. Innamora chiunque.
Conquista tre medaglie d’oro e due d’argento.
La medaglia d’argento alla trave consegue ad una decisione contrastata e controversa della giuria, che preferisce l’esercizio della ginnasta sovietica Natalia Alexandrovna Kuchinskaya.
Vera conquista la quarta medaglia d’oro, per l’esercizio a corpo libero. Alle sue spalle, due ginnaste sovietiche.
Succede allora che la giuria, terminata la competizione, rivede ed incrementa il punteggio di Larisa Leonidovna Petrik.
Così che Vera sale sul gradino più alto del podio al fianco di Larisa.
Affiancate sul pennone, si alzano la bandiera cecoslovacca e quella sovietica. La banda intona l’inno sovietico.
Vera aveva firmato il manifesto, non aveva abiurato ma era fuggita in montagna.
Ora, su quel podio di Città Del Messico, al fianco di Larisa, Vera china il volto verso destra, serra la mascella e stringe i pugni. La bandiera sovietica non la guarda.
Sarebbe stata rieducata e la sua colpa l’avrebbe scontata al ritorno a casa. Perché sarebbe ritornata.
Vera la sua colpa la sconta fino in fondo, resiste alla rieducazione.
«Se avessi rinnegato quella speranza, la gente che credeva nella libertà, avrebbe perduto fiducia e coraggio. Volevo che conservassero almeno la speranza».
Muore civilmente. Fino al 1989.
Il 30 agosto 2016 Vera muore fisicamente, per un tumore al pancreas.
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