Uno di questi pomeriggi, ascoltavo un programma di intrattenimento – “Baobab – l’albero delle notizie” – alla radio. L’argomento della trasmissione era il viaggio nello spazio e, tra le voci radiofonate, vi erano quelle sicuramente competenti di Franco Malberba, professione astronauta e ahimè nel tempo libero parlamentare europeo nelle fila del partito popolare europeo, e della immancabile eminente astrofisica fiorentina professoressa Margherita Hack.
La tematica trattata potrebbe apparire forse remota, ma è invero quanto più attuale se consideriamo lo stato precario in cui vige il nostro pianeta; quanto più attuale se è universalmente noto che viaggiare nello spazio sia da sempre uno dei più grandi sogni dell'umanità. Comunque, unitamente al viaggiare nel tempo, il viaggio nello spazio, da intendersi quale universo infinito e sconosciuto, è sicuramente quella che appare la prossima e ultima frontiera e barriera da abbattere.
Ad ogni modo, stando allo stato attuale degli studi di astrofisica e alle odierne e prossime conoscenze nel campo delle tecnologie aerospaziali, pare non sia concretamente nemmeno rappresentabile un viaggio attraverso lo spazio, alla ricerca di un nuovo e nemmeno identificato pianeta abitabile per l’uomo, che possa essere percorso nell’arco di una unica "vita". Questo viaggio, difatti, richiederebbe in ogni caso centinaia di anni e, per essere percorso, l’ausilio di astronavi ove potere in qualche modo permettere la vita persino quotidiana di questi ipotetici viaggiatori nello spazio. La ricerca, la conquista di nuovo pianeta abitabile richiederebbe dunque, alla stregua dei viaggi migratori delle farfalle monarca del Nord America, che tutti gli anni compiono un coraggioso e affascinante viaggio di andata e ritorno lungo il continente, più generazioni.
Non divagherei ulteriormente comunque. Il fatto è che la questione posta dalla professoressa Margherita Hack appare dunque quanto mai affascinante e forse provocatoria: sacrifichereste tutta la vostra esistenza per questo viaggio attraverso lo spazio sterminato e sconosciuto? Sareste disposti a dare via tutta la vostra vita per la scienza?
In assoluto, rispondere a questa domanda appare fin troppo semplice. Nonostante tutti i suoi difetti, l’uomo appare potenzialmente quale una creatura infinita. Almeno, è infinita la sua concezione del tempo e soprattutto degli spazi. Nonostante il costante imbarbarimento della collettività sociale e del genere umano, difatti, l’uomo per propria natura e costituzione non si pone limiti. Viaggiare nello spazio, da intendersi in ogni caso quale spazio fisicamente percorribile, è per l’uomo qualche cosa di indispensabile e equivale in qualche modo a viaggiare dentro se stessi e in questo modo rinnovarsi, dare nuova linfa alla specie e, se vogliamo, acquisire sempre più una maggiore consapevolezza dei propri, finiti o infiniti che siano, mezzi. Tutto sommato, non è da dimenticare inoltre che siamo una specie relativamente giovane. Nell’inedito formato “Homo sapiens” abitiamo questo pianeta da soli 130.000 anni. I dinosauri, ad esempio un qualunque triceratopo lungo nove metri e alto tre e dal peso di circa otto tonnellate, hanno abitato questo pianeta per qualche milione di anni.
E’ evidente, dunque, che la questione posta acquista dunque un senso molto più ampio e appare dunque lecito demandarsi se e quanto saremmo effettivamente disposti a sacrificare, se persino anche la nostra vita, se questo aiutasse in qualche modo a scoprire la nostra vera essenza e chi siamo veramente.
E’ questa la scottante questione che si pone Robert Gu, il protagonista di “Alla fine dell’arcobaleno”, romanzo di fantascienza dello scrittore, e di già professore presso la San Diego State University, Vernor Vinge. Robert ha viaggiato nel tempo in un modo forse poco ortodosso e convenzionale, ma che ad oggi, non ce ne voglia il simpatico e stralunato professore Emmett Brown reso celebre sul grande e piccolo schermo da Christopher Lloyd, che viaggiava nel tempo alla guida di una DeLorean – “Scappa Martyyy!!!” -, appare essere l’unico possibile: ritrovare la memoria dopo anni di semi-incoscienza dovuti al morbo di Alzheimer. Quando si risveglia, dopo all’incirca una ventina di anni, Robert è nella San Diego del 2025, in un mondo completamente differente da quello cui apparteneva, dove le moderne tecnologie informatiche la fanno da padrone e non vi è più spazio per la letteratura; i libri sono considerati per lo più come qualche cosa di cui disfarsi e sono distrutti o custoditi in uno stato di totale incuria; la gente comunica tra loro mediante l’ausilio, “indossando”, delle futuribili lenti a contatto multimediali; qualcheduno si sottopone, a proprio rischio e pericolo, a vere e proprie “revisioni” multimediali allo scopo di ottenere nuove e più illimitate capacità. Con qualche conseguenza non voluta, che ogni tanto capita dunque di ritrovarsi a sputare fuori frasi e imprecazioni in dialetto cantonese nel bel mezzo di una normale e quotidiana conversazione.
Un mondo tutto sommato concretamente futuribile, stando all’attuale ritmo di sviluppo e crescita tecnologia. Dove anche la medicina, tuttavia, ha fatto dei passi da gigante. Robert Gu ha settantacinque anni, ma, grazie alle cure ricevute, ne dimostra molti di meno ed è stato rimesso completamente in sesto e riportato alla vita. Riacquistate tutte le sue funzionalità fisiche, Robert scopre così di stare meglio di venti anni prima; viene reinserito in società e, tramite la frequentazione di corsi di studio “liceali”, iniziato, come tutti altri suoi coetanei “riabilitati” dalle nuove tecnologie mediche, all’utilizzo delle novità informatiche e, soprattutto, alla complessa tecnica di “indossare” queste benedette e futuribili lenti a contatto.
Tutto sommato potrebbe essere felice, non fosse che una volta era stato uno dei più grandi poeti americani, uno dei migliori della sua generazione e ora ha invece “perso la musica nelle parole”. La sua testa è affollata da immagini, ha di continuo delle nuove e buone idee, ma nessun verso concreto: è come se fosse morto dentro e questa cosa lo fa impazzire.
Robert Gu appare lucido nell’espletare tutte le sue funzioni vitali e nel portare avanti la sua (poca) vita sociale e quotidiana; sebbene non sia matto, tuttavia, ci appare quasi allucinato e reso cieco dalla impossibilità di ritrovare se stesso, pure a distanza di quasi venti anni e in un mondo che evidentemente non gli appartiene e in cui non si riconosce. Così, come nella più tipica delle rappresentazioni tragediografe della antica Grecia che prevedevano appunto l’intervento risolutore del cosiddetto “deus ex machina”, Robert decide di stringere il tipico patto con il diavolo; solo che questa volta il diavolo ha le sembianze di un coniglio – che negli intenti dovrebbe ricordare forse il “coniglio bianco” di Lewis Carroll, ma che piuttosto ci ricorda, non fosse altro per gli atteggiamenti irritanti e per la altrettanto irritante abitudine di sgranocchiare carote nel corso della conversazione, il coniglio della Warner Bugs Bunny -; solo che il patto finirà con il coinvolgere Robert in un intrigo internazionale che rischierà di minare e di far saltare i di già inevitabilmente fragili equilibri tra le grandi potenze internazionali (Europa, Usa, Cina), nonché alla fine di mettere a repentaglio pure la vita dei suoi stessi familiari, di cui per la verità, cinico vecchiaccio senza cuore, non è che si sia mai curato granché.
“Alla fine dell’arcobaleno” riesce solo a metà. Le idee di base sono buone, ma la narrazione, a tratti confusionaria, appare troppo complicata e soprattutto poco lineare. Non solo. L’autore ci presenta bene una realtà concretamente futuribile e un personaggio significativamente “nudo” e disarmato innanzi alla inevitabile realtà e irrealtà che lo circondano e solleva interessanti questioni sullo sviluppo della tecnologia e della società, nonché sulla effettiva natura del genere umano. Egli ci invita dunque a una riflessione, ma non si propone tuttavia di fornire alcuna risposta concreta o meglio forse questa non viene bene caratterizzata e appare quindi discutibile. Certo e infatti, Robert Gu, alla ricerca del suo talento perduto e in qualche modo di se stesso, non ci viene presentato come un personaggio positivo. Al contrario, sembra quasi l’autore voglia lasciare intendere che la sua ricerca sia sbagliata e che in realtà Robert, alla apparente affannosa ricerca di qualche cosa che, come il talento artistico e le capacità letterarie, è espressione elevata di una grande sensibilità, di uno stato d’animo, di una lucida incoscienza, rappresentazione manifesta del nostro pensiero e che dunque non può essere ottenuta solo mediante lo studio disperato e gli sforzi accademici, sia sostanzialmente e tutto sommato solo infelice; non si rende conto di avere di già tutto quello di cui ha bisogno. Sembra, dunque, Vernor Vinge, invitare il lettore a rifugiarsi negli affetti familiari e ad apprezzare le piccole cose buone che la realtà quotidiana ci propone, piuttosto che a ricercare continuamente e a perseguire grandi obiettivi.
E’ dunque sbagliato andare alla ricerca di noi stessi? Abbiamo già tutto quello che vogliamo? E questo, ove fosse vero, significa forse accontentarsi? Insomma, voglio dire, forse non vi è nulla al di fuori del nostro sistema solare e alla fine di questa galassia. Alla fine dell’arcobaleno.
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