"Siamo la prima – e si spera l’ultima – specie che si è evoluta al punto da meritare l’estinzione. Ma siamo anche una specie che ha il potere di cambiare il suo futuro."
Direbbe una band a cui sicuramente i Vestiges si sono parecchio ispirati.
"The Descent of Man" è un concept, un enorme concept, il concept. Non racconta una storia, racconta la storia, racconta ciò che ci riguarda tutti. La nascita, l'evoluzione e l'eventuale estinzione della nostra specie, del genere Homo.
Il nostro passato.
Il nostro presente.
Il Suo futuro.
Il futuro è della Terra, non nostro. Quando noi cadremo, il nostro pianeta sarà ancora in piedi, e forse allora troverà pace. Fine del mondo. Eh? Fine di che? Della Terra? Dell'universo? Del genere umano?
Sì, la Fine del mondo è la fine del genere umano, perché se moriamo noi muore anche tutto il resto. Dio se ne frega solo e soltanto di noi. O meglio l'uomo che se ne frega solo dell'uomo. L'uomo che venera l'uomo e fa piovere sangue sugli oceani e sui campi.
Gli unici protagonisti del Giorno del Giudizio. Gli unici che devono essere giudicati.
La Terra non morirà con noi, è sopravvissuta a cose di cui non immaginiamo la portata. Specie ancora non definite aspettano pazientemente la loro possibilità dopo che il palco sarà nuovamente vuoto. Una cosa talmente naturale, che non si ricorda.
"The promise of salvation in a land we have yet to see has clouded our judgment in a land that is right before our eyes."
Trova il tuo posto nel mondo. Trovalo, o almeno cerca di trovarlo. Ignoralo. Cerca qualcosa di più e poi giustificalo. Dio lo vuole. Ha creato tutto questo per te. Fanne ciò che vuoi. Ancora meglio, agisci senza logica. Distruggi te stesso mentre il tuo ambiente perisce.
"Industrialization, militarization, overpopulation, theism, specieism, and nihilism are regarded as evolution and progress."
Ma il resto rinascerà, tu no.
"There will be horrifying consequences for what we have done."
Tutte nostre.
"The Descent of Man" è indivisibile, compatto, lineare. Un intro, un outro e cinque tracce numerate. Un unico flusso di un intensità devastante. Viscerale ma anche variegato, oscuro e profondo. Urla che potrebbero essere quelle di ognuno di noi, che sono quelle di ognuno di noi e che, di più, sono quelle di ogni forma di vita oppressa, di un pianeta ferito che tenta disperatamente di scrollarsi di dosso una malattia in un processo lento ed inesorabile.
Ci sono quelle muraglie sonore impenetrabili che schiacciano al suolo, ci sono quelle vertiginose partenze D-Beat a fare terra bruciata, ci sono i crescendo titanici del post-rock più epico dalle atmosfere "Celine Dion sings love songs, while our cities burn" e c'è il mal di vivere, tanto.
"Bred to worship man, miracle, and the life beyond this life, beyond the here and now."
Egocentrismo che viene da una dimensione trascendente mai vista.
"There is blood in the water, there will be
no forgiveness. We have fallen to ashes (to ashes), there will be no return. Rejoice, reclaim, and rebuild what mankind has taken for granted."
Fine dei giochi
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