Quello che più mi destabilizzava emotivamente (e mi destabilizza tuttora) della figura di Vic Chesnutt, omuncolo con lo sguardo da folletto e la voce insicura ed impastata di alcool proveniente dalla Georgia, era la sua maniacale auto-commiserazione. Se la maggior parte dei grandi cantori di drammi esistenziali avevano infatti cercato, attraverso la canzone, di esorcizzare, freddi e distaccati, il proprio dolore, Vic Chesnutt infieriva, con tagliente sarcasmo, sulla sua depressione, sul suo utilizzo smodato di droghe ed alcool ("Drunk", il suo terzo lavoro, fu registrato quasi nella sua interità in condizioni di ubriachezza) e perfino sulla sua paraplegia. Nei suoi primi dischi, prodotti da Michael Stipe, regnava un claustrofobico e crudele solipsismo: i sentimenti erano cantati in maniera dolente e volutamente teatrale, come li cantava, quasi un secolo prima, Blind Lemon Jefferson. Condivideva lo stesso male di Daniel Johnston ma, a differenza di quest'ultimo, era prigioniero della sua lucidità mentale, oltre che di una sedia a rotelle.

"Is the Actor Happy?", suo quarto episodio discografico, rappresenta la temporanea uscita da questo tunnel di solitudine. Per il cantautore di Jacksonville, Georgia si apriva una stagione fatta di successi commerciali, seppur non clamorosi, e di eminenti collaborazioni artistiche (Lambchop, Bill Frisell, Van Dyke Parks e Bob Mould, tra le più famose). Venne addirittura pubblicato, l'anno seguente, un disco-tributo nel quale nomi grossi, all'interno del music business, come Soul Asylum, R.E.M., Smashing Pumpkins, Garbage e addirittura Madonna interpretavano sue canzoni. Ma, se si ascoltano le melodie, squisitamente country-pop, di "Gravity of the Situation" o lo splendido ritornello elettrico di "Strange Language" si capisce immediatamente il perchè avesse conquistato tutti in maniera così improvvisa ed inaspettata. In questo suo lavoro, viene sacrificata parte della sua urgenza comunicativa a favore di una neonata consapevolezza dei suoi mezzi di musicista e "artigiano" della canzone. Se, infatti, la morbida ballata di "Doubting Woman" e l'arioso folk-rock di "Onion Soup" fanno pensare ad un superamento di questa sua crisi esistenziale, il blues disperato (vedi sopra alla voce "Blind Lemon Jefferson") di "Free of Hope" e la sinistra "Thumbtack" riportano al primo Vic Chesnutt, quello depresso e solitario. "Guilty by Association", invece, venata di archi e atmosfere cameristiche, da un lato testimonia definitivamente quanto sia cresciuto come compositore e da un altro prelude al suo periodo più sperimentale, quello che lo vede collaborare con musicisti come Silver Mt. Zion e Guy Picciotto e sfornare capolavori del calibro di "North Star Deserter", forse il suo zenit artistico, e dell'ultimo requiem di "At the Cut".

Ma il successo è, da sempre, cosa stupida ed effimera, e non consola alcun animo, neanche quello di uno come Vic Chesnutt, che riusciva a trasformare il patetico in poetico. La domanda contenuta del titolo di questo suo disco, ora, dopo la sua morte, avvenuta per overdose di antidolorifici lo scorso Natale, diventa retorica. E ammutolisce.

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Oltre ad essere uno dei più importanti cantautori dell'ultimo ventennio, era poeta, grande conoscitore di musica jazz (Chet Baker era il suo artista preferito) e attivista a favore della marijuana a scopo medico.

Farewell, James Victor "Vic" Chesnutt (12/11/64 - 25/12/09)

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