Nel mio piccolo ho scritto spesso di letteratura ma raramente o forse mai di qualche cosa che si possa a tutti gli effetti definire come "caso letterario". Viet Thanh Nguyen, blogger e scrittore e opinionista socio-politico (Repubblica ha pubblicato un suo articolo proprio questa settimana) è uno degli autori emergenti della nuova letteratura americana. Classe 1971, è nato in Vietnam ma nel 1975 con la sua famiglia si trasferisce negli Stati Uniti come profugo e il 1975 è proprio l'anno in cui cominciano le vicende di "The Sympathizer", il suo primo romanzo, pubblicato nel 2015 e premiato nel 2016 al Premio Pulitzer come "miglior libro dell'anno".
Se molto spesso la definizione di "caso letterario" viene adoperata per qualche cosa che susciti scalpore oppure indignazione per i suoi contenuti (quindi come "caso mediatico"), diciamo che qui la definizione va intesa in senso classico: molti hanno voluto definire il romanzo come una delle opere definitive sulla guerra nel Vietnam, lo stesso autore ha qui criticato il mondo dello spettacolo per come abbiano raccontato la guerra e rivendicando in questo modo la sua esperienza diretta di vietnamita costretto a abbandonare il suo paese quando era solo un bambino di quattro anni e poi cresciuto e vissuto per il resto della sua vita negli USA. Forse per questa ragione, possiamo considerare il protagonista del romanzo come una specie di suo alter ego, ma la verità è che forse il personaggio protagonista di questo romanzo rappresenta in sé tutte le contraddizioni possibili di quella che dopotutto fu, come tutte le guerre, qualche cosa di allucinante e che svuota il senso stesso delal vita, alienando intere società e l'individuo, finché lo schieramento e da che parte tu stia veramente possono nonostante tutto diventare qualche cosa di relativo e di completamente estraneo a te stesso.
Il fatto che io, appena finito di leggere il romanzo, narrato in prima persona dal protagonista, non ricordi neppure il suo nome (forse non ce l'ha) non fa che rafforzare i contenuti universali di questa opera: siamo nell'aprile 1975, i vietcong sfondano il fronte settentrionale e entrano a Saigon. Gli americani fuggono in massa, tra loro c'è anche il nostro (anti)eroe che è capitano della polizia nazionale del Vietnam del Sud. Metà occidentale e metà vietnamita, figlio di un rapporto illecito tra sua madre (vietnamita) e un prete cattolico francese, ha studiato negli Stati Uniti e viene molto considerato per la sua grande conoscenza sia della cultura americana che di quella del suo paese di origine, ma a parte tutto questo è anche un dormiente, una spia addestrata dai comunisti e che seguiamo nel suo lavoro di raccolta di informazioni come infiltrato nella comunità vietnamita negli Stati Uniti d'America e in quello che è un apparente sdoppiamento di personalità. Se avete letto quella opera magistrale che poi sarebbe "Mother Night" di Vonnegut, potete probabilmente capire di che cosa parlo: il protagonista è un capitano al servizio di un generale che intende organizzare un piano militare di rientro nel Vietnam, ma lavora cone spia per i Vietcong. Allora chi è veramente, che cosa sta facendo veramente, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato? Ma soprattutto, qual è il senso di tutto questo e che cosa lo spinge a dividere se stesso e apparentemente con grande naturalezza e disinvoltura tra il culto della civiltà occidentale e gli Stati Uniti d'America e i valori del posto in cui è nato e cresciuto?
Che un compromesso sia possibile oppure no o se necessario, non viene spiegato. Il punto è la profonda spaccatura interiore di un individuo che già nella sua natura (in quanto "métis", come dicono i francesi) è diviso a metà e come tale osteggiato da tutti e alla ricerca di una sua identità e che viene apprezzato come tale in maniera strumentale solo durante la guerra e sia da una parte che dall'altra, senza guadagnare mai in questo gioco delle parti quello che poi avrebbe dovuto essere suo obiettivo primario, cioè la libertà.
In quanto tale il romanzo non è schierato con nessuna delle parti in gioco, così come in fondo alla fine non lo è neppure il protagonista che nel tempo non potrà fare altro che rendersi conto della sua situazione, prendendo coscienza della sua individualità e della sua indipendenza di pensiero, ma solo quando tutti i giochi saranno fatti e tutte le carte scoperte.
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