La propensione a sottrarsi ai percorsi consolidati, non solo in senso musicale, alle piste battute e magari aperte da lui stesso, non poteva che condurre Vinicio Capossela a un viaggio per mare aperto, in quella dimensione che all'ebbrezza del naufragio connette, a complemento, le dolci-salate nostalgie del ritorno e delle terre mancanti. Un'odissea a manovella, dunque, in quell'universo fluido dove l'ispirazione attinge alla sconfinatezza e al grembo del sommerso oltre che ai tesori della tradizione letteraria e delle sue mitologie, qui assurte a stella polare. Lo spirito guida è innanzitutto quello di Melville e delle sue invenzioni letterarie, ma i riferimenti culturali sono molteplici. Essi tracciano un solco fra le acque ma in qual varco Vinicio svaria poi a suo piacimento, inseguendo liberamente i riflessi delle scie, le vie secondarie, i giochi d'acqua determinati dal transito di quella flottiglia poetica.
In copertina, sullo sfondo di un mare livido e tranquillo, spicca per contrappunto, dalla cintola in su, un Capossela nelle sembianze di un Achab risorto, di una sagoma da comandante di vascelli fantasma con l'anima da pirata nero, un effigie indelebile disegnata su relitti riaffiorati, comunque salda nell'apparente precarietà di sponde costantemente immaginate.
Capossela si destina a un'opera ciclopica (ma con più occhi), onnicomprensiva, dall'impianto teatrale che alterna ballate e recitativi, polifonie corali da tragedia greca e rumorismi, struggenti introspezioni e intonazioni da marcia funebre, brusii dodecafonici, plaisanteries da canzonetta, cantilene bandistiche, azzardi da musical e interpunzioni jingle. Di fronte all'essenzialità degli elementi naturali, partendo dalla feconda umiltà dell'uomo, che al loro cospetto è fragile spettatore ma anche artefice del loro stesso significato, Capossela si affida a sonorità semplici, a ricalco di melodie che parrebbero esistere da sempre e per sempre, a portata di mano come venti o correnti che richiedono soltanto di essere ascoltate. Egli le capta lungo la linea di orizzonti smisurati e nella calma apparente di bonacce che addensano il rollio di navi senza rotta e il fiato sospeso di Leviatani sommersi. Ma nell'atto di questa decalcomania, sulle tracce del presistente, si apre il sortilegio di uno spazio autonomo e vertiginoso da cui scaturisce il fascino di questo disco che ci invade gradualmente, che arriva con lentezza come l'onda di una marea che sciolga i grumi dei nostri ormeggi.
Quest'opera assorbe e riflette, mirabilmente, la misura della lentezza e della profondità dell'universo marino distaccandosi come un fecondo relitto dai cicli cristallizzati delle vanità terrestri. Il canto, ora suadente ora salmastro, accorda le saghe piratesche o avventurose di superficie con il sordo rombo subacqueo di un universo gremito da entità minacciose, foriere di prossimi stravolgimenti; lo sciabordio di acque placate, in cui si adagia la dolcezza visionaria della melodia, con le angustie derivanti da un mondo imperscrutabile, dall'assenza di spazi definiti.
Tutto scorre nel segno ambiguo di crudeltà ed elargizione, di sacrificio e ripartenza. Ma l'epopea, da qualsiasi punto la si consideri, è rigenerante. Ci indica come ogni viaggio per acqua sia un naufragio e viceversa. Qui Capossela compie un itinerario fuori dagli itinerari, affronta la circumnavigazione del mare, sigillo titanico dell'esperienza umana.
Stefano Cardarelli
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