Le Canzoni della Cupa non finiscono mai di ronzarmi in testa. Un disco che continua piacevolmente a torturarmi da quando ho chiuso per la prima volta le dita sulla sua copertina, e lo sta facendo anche ora, poche settimane dopo aver saggiato i suoi pezzi dal vivo, in una data nel famigerato Polvere tour: la mia indimenticabile prima volta con Vinicio!

Il viaggio verso Sogliano, fu piuttosto piacevole. Il traffico era abbastanza scorrevole, cosa che – senza false modestie – avevo previsto, d’altronde, io mi definisco un “roadster” strategico, che in genere sa calcolare il momento giusto per partire e quello in cui deve lasciar perdere. Non è un caso, infatti, che io abbia scelto di partire di domenica pomeriggio per percorrere le due ore e mezza di strada che mi separavano dal succitato paese romagnolo, piuttosto che scegliere la data del venerdì prima, a Villafranca che mi avrebbe senz’altro portato in tangenziale Verona sud alle otto di sera: io so bene quanto sarebbe stato stressante, specialmente dopo otto ore di lavoro sul groppone.

Le vaste pianure della Romagna mi accompagnarono dunque per tutto il viaggio, prima degl’ultimi dieci chilometri, dove dovetti arrampicarmi su per la collina, affrontando peraltro dei tornanti piuttosto insidiosi (immaginatevi una U schiacciata). Giunto a Sogliano individuai subito la location: c’erano delle transenne che bloccavano la parte alta del paese, e decine di carabinieri e membri della protezione civile, intenti ad attorniare le barriere, lasciando sfavillare al sole i loro giubbotti catarifrangenti. Uno di loro, mi consigliò di parcheggiare lungo la strada che decisi di seguire finché non mi apparve davanti una gigantesca immagine dell’Uomo vitruviano di Leonardo – realizzata in lignei pannelli livellati – poggiata su un’erbosa isola spartitraffico di una piccola rotatoria. Senza volerlo, avevo trovato il mio punto di riferimento. Superai la rotonda e parcheggiai ad un centinaio di metri da essa: finalmente avevo trovato un erboso e comodo spazio piano dove sistemare la macchina.

Poco dopo m’incamminai verso la location. Il paesino era piuttosto grazioso, sembrava quasi un’Assisi dall’aspetto più moderno. Provavo a tenere gl’occhi fissi sul Campanile di San Lorenzo – che mi avrebbe aiutato a trovare piazza Matteotti, luogo del concerto – ma le imponenti vallate circostanti offrivano ai miei occhi un meraviglioso panorama, e spesso mi costringevano a distogliere lo sguardo dalla meta: sembravano lì apposta per rendere più piacevole la mia passeggiata. Giunto in centro vidi il manifesto del Polvere tour e ovviamente capii di essere sulla buona strada; da lì a poco ritrovai infatti la zona transennata, che varcai per imboccare un pietroso viottolo in salita che conduceva alla piazza.

La location prometteva molto bene. Movendomi lungo la piazza avvertivo l’odore della storia attraversarmi le narici. In quel luogo, infatti, si erano mossi, molti anni prima, i familiari di Lucio Cornelio Silla, uno dei più famosi dittatori romani della storia. Poi, dal medioevo, il paese fu invece gestito dai Malatesta, Signori di Rimini, che costruirono un castello – poi demolito nel corso dell’ottocento – proprio nel punto in cui oggi sorge la piazza. Pensai subito che quel clima antico avrebbe dato più carica evocativa – ed estetica – all’esibizione di Vinicio, anch’egli cantore di difformi ere percorse dalla civiltà umana. Il palco richiamava distintamente l’atmosfera del nuovo album; un campo di grano, realizzato piuttosto fedelmente, con la strumentazione adocchiabile oltre le spighe: chitarra battente ed elettrica, guitarron, banjo, viella, tamburi, batteria, cubba cubba, e in fondo, l’enorme contrabbasso che si ergeva maestoso sopra il “frumento”.

Non avendo visto alcun video del Polvere tour, stavo lì a chiedermi quale “opener” avrebbe dato il via alla scaletta, quando i musicisti calcarono il palco spandendo vocalizzi simili a quelli lanciati dagli Zulu nel ben mezzo di una danza tribale africana. Pochi secondi dopo partì il riff acustico de La bestia nel grano mentre Vinicio entrava in scena tra una miriade di luci accecanti, atte a rappresentare la sudata “Ora della controra” ossia il sole a mezzogiorno, che non lascia alcuna ombra sulla terra e nel grano, dove il mietitore, accecato dai lampi lanciati dal sovrastante disco di fuoco, lotta coi suoi falsi presagi, tentando invano di scacciare le bestie immaginarie che minacciano la vita nel campo: “È volpe? È gufo? È quaglia? È lupo? Ondeggia nel grano…ondeggia nel grano”. Per l’occasione Capossela scelse d’interpretare in modo bizzarro e folcloristico (anche un po’ tragicomico), proprio la famigerata Bestia, destreggiandosi fra gli strumenti in una danza “animalesca”, e sbraitando “Uhss piglia la bestia nel grano, Uhss caccia la bestia dal grano, Aèhh!” per regalare al pubblico un inizio dal forte impatto emotivo e visivo. Poi toccò a Femmine, altro arrangiamento etnico introdotto magistralmente dalla corista femminile, mentre Vinicio ne approfittò per recuperare le sembianze umane ed imbracciare la chitarra.

Cominciai allora a sospettare che forse avrei sentito molta “Cupa” in quel live, e la cosa non mi dispiaceva perché, come sapete, resto follemente innamorato del nuovo disco. I sospetti si concretarono man mano che procedeva la scaletta, quando potei ascoltare alcuni pezzi tradizionali inseriti nel disco Polvere – prima parte del nuovo album – come La padrona mia, Zompa la rondinella, Pettarossa, Nachecici; tutti brani che costrinsero la piazza a cimentarsi in una rozza e sperequata danza folk che avrei voluto non finisse mai. Fui anche felice di ascoltare qualche canzone da Ombra, come la carnevalesca Componidori – con tamburi e maschere in scena – la scura e sacrale La notte di San Giovanni, il notturno blues di Scorza di mulo – con un unico cono di luce blu che varcava di sbieco il palco – e la cinica polka de Lo sposalizio di Maloservizio, dove Vinicio sfruttò intelligentemente il verso “Dalla sala di sposalizio al cancello del Camposanto “ per improvvisare un “miniconcept” sulla morte, crollando a terra al termine del brano, intorno ai musicisti che disperati gridavano: “È morto Vinicio! Vinicio è morto!” prima che il poveretto si rianimasse per imbracciare un bastone maligno, al capo del quale stava “appollaiata” una civetta dagl’occhi rosso fuoco – puntati inesorabilmente sugli spettatori – ed iniziasse macabramente a intonare: “E lo portaron al Camposanto, gonfio di birra, senza rimpianto…” era il primo ripescaggio del vecchio repertorio.

Effettivamente non mi sarei mai aspettato di sentire proprio La marcia del Camposanto, da un colosso d’album come Canzoni a manovella (2000), che contiene molte altre perle degne di nota. Poco male: nonostante la “studio version” sia un pezzo spesso snobbato dal mio apparato uditorio, devo dire che dal vivo acquisiva un fascino degno di nota, come del resto anche l’esecuzione di Signora Luna, altro ripescaggio che preferii sentire al posto della più nota Con una Rosa – che probabilmente sarà serbata per il tour invernale. Molto bello anche l’approccio etnico e minimale dal punto di vista esecutivo (solo flauto e chitarra acustica), grazie al quale Signora Luna era proposta in una veste alternativa, ma in linea col clima agricolo del nuovo album – scordatevi perciò la psych rock version del live ufficiale, Nel niente sotto il sole. Pena dell’alma seguì la stessa falsariga, con la fisarmonica al posto del piano, mentre una gradevolissima luce dorata – filtrando tra le biondeggianti spighe di grano – faceva brillare i corpi dei musicisti.

In un concerto che spesso aveva toccato temi come l’amore e la morte, non poteva di certo mancare il concetto della resurrezione, la rinascita de L’uomo vivo, per ricordare Il Gioia, storica festa di Scicli, dove la statua del Cristo è fatta sfilare lungo le vie della città – un modo per solennizzare la Pasqua cristiana. Il pezzo gettò la piazza in estasi mistica: sei minuti dipanati in una moltitudine di corpi sudati e ballonzolanti, sotto un’intricata miriade di mani scroscianti al cielo. Tra le hit immancabili, sfilò naturalmente Il ballo di San Vito, dove udii uno sbrigliato Capossela evocare Dioniso durante il riff d’apertura – dopo due ore di sorsate dentro il fiasco di vino, la cosa era del tutto normale – mentre il palco si faceva invadere da un gradevole connubio di luci purpuree e incandescenti.

Mi divertii ad ascoltare il pubblico intento ad intonare Romagna mia, prima del bis, cosa che stupì lo stesso Vinicio che ringraziò il pubblico, anche se a dire il vero, io non riuscii a capirne il motivo. Sorpresa in chiusura: una convincente cover de Se perdo anche te di Gianni Moranti, attuata con un approccio più country, che Vinicio giustificò dicendo: “La facciamo molto Gianni Cash!”. Il motivo del pezzo, è legato ad un post di youtube sul canale ufficiale di Morandi – appena due giorni prima del concerto – dove Gianni esegue circa mezzo minuto de La padrona mia. Vinicio volle dunque ricambiare il gesto sul palco, e non solo, perché il giorno dopo il concerto ne girerà anche un breve video sul suo canale ufficiale. Ultimi minuti affidati a Ultimo amore, quando ormai mancava poco al definitivo congedo dei musicisti.

Alla fine erano filate anche quelle due ore e mezza di concerto, mentre me ne aspettavano altrettante per il viaggio di ritorno. Una serata che ricorderò a lungo, grazie alla quale ho trovato l’ispirazione per scrivere questo testo. Nel chiedervi scusa per avervi parlato ancora di Capossela, spero possiate accettare questa penosa, scontata, ma sincera giustificazione: quando qualcosa piace, non si può fare a meno di parlarne al prossimo.

Dragonstar

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