Il Brasile è uno dei Paesi al mondo maggiormente vittima dei luoghi comuni, dell'oleografia, di un'immagine unidimensionale creata ad uso e consumo di un turismo superficiale e predatorio, figlio di una mentalità colonialista non ancora purtroppo estinta. Rio de Janeiro, da questo punto di vista, è la città del Brasile dove tutto ciò risulta amplificato, dove questa distorta visione, da parco dei divertimenti, sostanzialmente fasulla, ha procurato più danni e risulta più difficile da estirpare ( un po' quello che accade, facendo le debite differenze, con la città di Napoli per l'Italia). 
Molti veraci artisti brasiliani, anche tra i musicisti, hanno sempre cercato, più che di avversare tale parziale immagine, di dar conto della ricchezza della loro cultura nazionale estremamente varia, intrecciata, meticcia, che scaturisce dal mescolamento di tre principali civiltà espressione di tre diversi continenti. Vinicius Cantuária, valente chitarrista e sensibile cantante, nato a Manaus in Amazzonia ma vissuto fin dall'età di sette anni a Rio, è di certo uno di questi.
I suoi album sono la testimonianza di come si possano recepire le influenze più svariate di questo coacervo culturale, innestando sulla propria formazione musicale, il samba e la bossa nova in particolare ma anche il rock, nuovi fermenti, aprendosi con coraggio e rispetto a contributi provenienti da altri generi musicali e da altre nazioni. Tante ormai le collaborazioni con artisti di rango, il nostro ha superato la cinquantina, aventi come comune denominatore la voglia di sperimentare, l'idiosincrasia verso la rigidità delle divisioni tra generi e l'amore per il Brasile: David Byrne, Brian Eno, Bill Frisell, Marc Ribot, Laurie Anderson, l'onnipresente Sakamoto, cittadino del mondo. Ma l'incontro più proficuo, quello che ha segnato la sua carriera, è con Arto Lindsay che ha prodotto nel '96 l'album "Sol na cara", vero landmark della musica leggera moderna brasiliana, con la collaborazione, c'era da scommetterci, anche della Yellow Magic Orchestra.

Nel suo ultimo lavoro dello scorso anno, "Silva", Vinicius prosegue con lodevoli risultati su questa stretta strada virtuosa tra radici e innovazione, attento a che la forma canzone venga sempre rispettata. Già la cover è indicativa e fa comprendere lo sguardo diverso del nostro. Il soggetto della foto è uno di quelli che più brasiliano non si potrebbe: il Cristo Redentore posto in vetta al Corcovado. Ma non è il solito paesaggio da cartolina visto tante volte. Non c'è il grandangolo, ma lo zoom che riprende dal basso, tagliando fuori tutta la famosa baia, il volto della statua, vivificato con un abile ritocco, da una nera chioma e da una lunga barba che gli fa perdere molta della sua ieraticità, facendolo somigliare ad un hippy o a un rivoluzionario. Sembra essere quasi un suggerimento a non rimanere legati agli schemi preconfezionati, a non accontentarsi di rassicuranti "panoramiche" aeree, ma a guardare da vicino, da altri punti di vista non solo Rio, ma la realtà nella sua interezza.
La musica e i testi, per quelli in inglese si è fatto dare una mano dall'amico Arto che compare anche come coautore di ben tre pezzi, "Pena de Mim", "Reentry" e "Evening Rain", esaltano la sua vena più intimista e lirica. "A dor" (La pena), il brano che apre magistralmente il lavoro, riesce ad esprimerla nel migliore dei modi, grazie anche al contributo di archi misurati che accrescono il tono elegiaco, creando, allo stesso tempo, un delicato contrasto con percussioni tipo samba. In "The Bridge" si canta la bossa nova, ma la tromba straniante di Jun Miyake, che ricorda un po' quella di Hassell in "Brillant Trees" di Sylvian, e i suoi campionamenti gettano un "ponte" tra antico e moderno.
In un lavoro dove si mettono a fuoco piccole-grandi tempeste dei sentimenti, la cover non poteva essere che "A felicidade" di Jobim&Morales, classico al quale il nostro guarda come ad una stella polare ("A felicidade é como a pluma / Que o vento vai levando pelo ar / Voa tao leve / Mas tam a vida breve"), aggiungendo però una nota di maggiore malinconia. Nella citata "Reentry" sembra di ascoltare un Frisell più "easy", decisosi a cantare di amori tormentati. Una spruzzata leggera di jazz serve a rendere meno dolorosa "Evening Rain", il brano migliore dell'album a mio modo di vedere, una ballad, una poesia in musica che dovrebbe fare breccia anche nei cuori più impenetrabili.

Ma altre sono le fragranze, altri sono gli accostamenti di gran gusto che scoprirà chi vorrà inoltrarsi nella "selva". Nell'ideale seleçao dei musicisti carioca, pur tra tanta agguerrita concorrenza, Cantuária una convocazione la merita; anzi, in taluni incontri, quando i ritmi non sono troppo sostenuti, potrebbe disimpegnarsi anche da titolare. L'unico problema che, visto all'opera, sarà poi difficile farlo sedere in panchina.

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