Non vedevo l’ora che uscisse. Non vedevo l’ora di ascoltarlo. Ma, allo stesso tempo, nutrivo dentro di me un timore non indifferente. Questo timore si chiama(va) “Fabio Lione”, singer dalle innumerevoli doti vocali, forse uno tra i migliori all’interno della scena power italiana (e non solo).
Insomma: un grande personaggio che, tuttavia, io ho sempre definito inadatto al genere musicale proposto dai Vision Divine. Almeno da quando entrò a far parte della band Michele Luppi, un signor singer che, dopo “The 25th Hour”, presentando le dimissioni alla band, ha preferito concentrarsi sulle sue vocazioni AOR, piuttosto che sul power-prog della Visione Divina di Olaf Thorsen.
Questa mia paura era dovuta soprattutto dal fatto che i primi 2 album dei Vision Divine (“l’omonimo e “Send Me An Angel”) non mi avevano affatto entusiasmato, sembrandomi i classici dischetti di power metal, tutto neoclassico e veloce. Insomma: la solita minestra, tanto per capirci. Paura che feci notare, in sede di una mia personale intervista, anche allo stesso Olaf chiedendogli se, per caso, il ritorno in formazione di Fabio Lione, non avesse portato i Vision Divine a rispolverare quelle (odiose) melodie ormai assopite.
Il buon Olaf mi rassicurò e mi disse che ormai i Vision Divine erano una band poco interessata al power tot-court ma sempre più orientata alle sperimentazioni e sempre più vicina al prog piuttosto che al merdoso power.
Ma, come si dice, non ci credo finché non ci metto il naso e…… e, devo ammetterlo, questo disco non mi fa affatto rimpiangere l’assenza di Michele Luppi. Anzi, dirò di più. Sembra che Fabio Lione si trovi perfettamente a suo agio assieme alle sue corde vocali e che sia il vero mattatore delle composizioni di “9 Degrees West Of The Moon”. Davvero in pieno stato di grazia, non potevo desiderare di meglio.
Ma le sorprese non finiscono qui.
Di certo, i Vision Divine, non possono essere definiti una band eclettica, o quasi. Ma qui, in questo disco, sfoderano tutta la loro vera potenza e le loro intenzioni: quelle di mandar e a cagare il power metal, i suoi stupidi assoli neoclassici e iperveloci, le sparate in doppia cassa… insomma: tutti i classici stilemi che rendono il power quel genere sputtanato e odioso ai più.
Finalmente si respira aria di innovazione e voglia di lasciarsi alle spalla definitivamente il passato, levandosi di dosso lo spettro del power per dedicarsi a qualcosa di diverso e, diciamo pure, di innovativo.
Le danze si aprono dalla suite (quasi nove minuti) “Letter To My Child Never Born” che sarà usata come filo conduttore per tutte le tracce che compongono il lotto (l’album,m in realtà, non è il classico concept a cui i Vision Divine ci avevano viziati, ma rappresenta una sorta di dialogo di un padre con il proprio figlio mai nato. Dialogo che si apre con la prima traccia, essendo le altre distaccate liricamente ma, tuttavia, legate alla prima). La song, dall’apertura oscura, si dipana in una classica speed song dal refrain molto orecchiabile, con un bel break centrale che spezza l’andatura della stessa rallentandola e facendola diventare più riflessiva. Segue la powereggiante “Violet Lioliness” che molto probabilmente sarà destinata a diventare il primo singolo del disco e che è possibile anche ascoltare sul Myspace della band. Song dove Fabio Lione sforna un’ottima prova.
Tuttavia, queste due songs, poco dicono o aggiungono a ciò che deve realmente accadere. Perché le novità arrivano dalla terza track in poi, fino alla fine. Da qui in poi, infatti, l’album perderà quella forza di impatto “facile” impregnata sull’orecchiabilità delle canzoni, per concentrarsi maggiormente sulla struttura delle stesse. Ecco, quindi, nascere i nuovi Vision Divine che in “Angel in Disguise” mostreranno il loro lato più drammatico, con un Lione “disperato e sofferente”. Meravigliosa.
“The Killing Speed Of Time” è la track più cattiva del disco, dove Fabio ione si appresta a sfornare quelli che sono i suoi “growl” (in realtà modula le sue corde vocali per una prestazione più sporca e cattiva) e dove la batteria di Alessandro "Bix" Bissa esplode in tutta la sua furia distruttiva, per poi “calmarsi” nel refrain più meditato e melodico.
Ottima la prova fornita dallo stesso Olaf che non è più impegnato ad eseguire assoli che vanno alla velocità della luce con scale e sovrascale. Questa volta la loro esecuzione ed il loro ascolto diventa più “lineare” e, apparentemente, maggiormente “easy” (tranne in alcuni episodi isolati dove il nostro amico, tirando fuori i controcazzi, mostra le sue inenarrabili doti del grande chitarrista qual è). Merito, soprattutto, del grande operato di Alessio "Tom" Lucatti che riesce a costruire ottimi tappeti sonori con le sue tastiere destreggiandosi, altresì, in maniera assai precisa tra tastiere e pianoforte. Un grande.
E se “The Street Of Laudomia” mostra ancora una volta il lato più dinamico e versatile della band, in “Out in Open Space” ci viene mostrata la cura a dir poco maniacale della band per gli arrangiamenti (forse una tra le canzoni più belle del disco). La title track riprende il discorso del dialogo del padre col figlio (“Tell me, father: Is it time to go, really? A little more time Let me stay with you...” ) e, musicalmente, è un’autentica poesia, una gemma lenta e melodica, con l’intera band in pieno stato idilliaco.
A chiudere le danze ci pensa la cover di “A Touch Of Evil” dei Judas Priest, eseguita in modo abbastanza fedele all’originale, pur essendo la voce di Lione non così cattiva e incazzosa come quella del buon Rob Halford (anche se, ad onor, Fabio si impegna moltissimo ad imitarlo! L’urlo “…You're possessing me!” è da infarto!). Ma questi sono dettagli. Nel complesso, la cover, è riuscita, e anche piuttosto bene.
E, sempre rimanendo nel tema del “complesso”, l’album risulta essere il più bello mai composto dai Vision Divine ad oggi, essendo pregno di innumerevoli cambi di atmosfere, come se, in ogni momento, vi fosse, dietro ad ogni song, una maschera diversa dalla precedente pronta ad essere levata per mostrare il vero e nuovo animo di questa Visione divina che ha dato alla luce uno dei miglior album della propria carriera, “9 Degrees West Of The Moon”, sicuramente un disco che non annoierà nessuno e che piacerà anche a chi i Vision Divine li ha sempre visti come una band dedita al solo power metal e incapace di evolversi.
Ebbene, con questo gioiello i nostri dimostreranno al mondo intero di cosa sono realmente capaci di fare!
Ottima prova, ottima band, ottima produzione (grazie alla “mano magica” di Mr. Tolkki) e, in conclusione, ottimo disco.
Nient’altro da aggiungere se non: ascolto consigliatissimo con conseguente invito ad acquistare il disco!
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