Grazie al polverone che recentemente si è abbattuto sugli ormai celebri paladini del symphonic metal, i finnici Nightwish, dovuto a cause che hanno spiazzato e fatto piuttosto discutere critica e fan, tutte le cosiddette "band minori" hanno potuto finalmente trovare maggior spazio all'interno di un mondo che era solito osannare soltanto i "grandi nomi". Da un lato resta l'amarezza di sapere che in futuro i beniamini di tutti, i maestri un genere, non saranno più quelli di un tempo, e per un bel po' di tempo saranno assenti dalle scene (ma Tuomas e soci, grazie ad alcune azzeccate parate pubblicitarie e commerciali, hanno indovinato la formula per ingannare l'attesa); dall'altro abbiamo l'appagante sensazione nello scoprire dischi come questo, quella che ci fa pensare "è proprio un peccato non avere conosciuto prima questa band". Per la serie "anche le crisi hanno i loro lati positivi"... Bisogna proprio ammetterlo: un'ondata di album di buona fattura ci ha piacevolmente sommerso, come a voler dimostrare che la scena sinfonica è ancora ispirata e tremendamente attiva.
Sono ormai un vago ricordo i tempi in cui anche i Visions Of Atlantis non riuscivano ad emergere dall'ingorgo creato da tutti quei musicisti dell'ultima ora che alle cavalcate tipiche del power metal univano senza troppa moderazione tastiere sinfoniche e voci soprano (e magari avevano pure il coraggio di denominare tale proposta gothic metal). Siamo così arrivati nel 2007, a poco più di sette anni dalla nascita del combo austriaco. Dopo l'allontanamento spontaneo (per motivi personali) della seppur brava (ma alquanto acerba) Nicole Bogner, e la recluta tra le proprie file della molto più avvenente e stilisticamente valida singer statunitense Melissa Ferlaak, il sestetto austriaco è tornato in carreggiata con un album fresco, pronto per sfare sfaceli tra gli amanti di un certo sound. "Trinity", chiariamolo subito a scanso di equivoci, non ha di certo la pretesa di andare a competere con un monolite del calibro di "Once" (per questo la band maturerà, solo il tempo potrà dimostrarci se i nostri riusciranno a portare a termine un'impresa di questa portata), ma possiede per lo meno il buon gusto di presentare al proprio pubblico una gamma episodi dinamici, ben assortiti ed totalmente coinvolgenti, che non vanno ad impegolarsi in intricate strutture orchestrali e non fanno uso di quegli abusati orpelli (i cori epici e polifonici cari ad Epica e Within Temptation qui non esistono nemmeno) che rendono a volte stucchevole l'ascolto di un disco (ricordate che siamo di fronte ad una band modesta, i nostri non si credono delle "prime donne", a differenza di altri).
Il sound, grazie alla mixaggio dei Finnvox Studios, si è fatto molto più potente ed energico: la chitarra è colei che fa da guida in questi territori, snodandosi tra percorsi non troppo tortuosi ma non per questo avari di emozioni (come sono belli gli assoli!); coadiuvata da batteria e basso essa regala ritmiche pulsanti che si stamperanno in testa senza troppa fatica. Discorso a parte va fatto per la tastiera; a questo strumento non è certo stato attribuito il più importante dei ruoli: non vi sono passaggi solistici degni di nota e i suoi suoni servono a creare un bel sottofondo, nulla di più nulla di meno. Ma tutto questo fa parte del loro stile, e perciò non mi sono nemmeno chiesto come avrebbero suonato certe canzoni se fosse stato dato più spazio alle note cristalline di un pianoforte (tra l'altro i tasti d'avorio non sono stati usati con immensa avarizia).
Vi sarete però resi conto di come non abbia ancora accennato al tipo di vocals utilizzate da questa band; beh, si trattava infatti della sorpresa finale. Tralasciamo la performance piuttosto canonica ma pur sempre apprezzabile di Mario Plank; Melissa Ferlaak è una vera e propria ugola d'ora. Possiede le tonalità più alte, acute e cristalline che io abbia mai sentito in un gruppo metal. L'impatto è spiazzante, peccato soltanto che la forse un po' troppo eccessiva staticità in fase di composizione non le abbia permesso di esprimere al meglio le proprie capacità interpretative. Col tempo forse tutto si aggiusterà e saranno in molti a tessere le lodi di questa voce angelica.
Che dire degli undici pezzi in scaletta? Un'analisi track-by-track non è necessaria, in quanto tutti si muovono su coordinate care al power metal sinfonico (con un po' di fantasia potremmo immaginarci di stare di fronte ad un side-project formato da membri di Kamelot e Nightwish) e sebbene il songwriting sia piuttosto omogeneo non troviamo nemmeno un pezzo noioso o riempitivo; questo "Trinity" è un incredibile e continuo susseguirsi di highlight (se fate attenzione ne troverete uno per ogni brano). Il cd si apre con quello che è l'episodio più anthemico del lotto, quello che punta maggiormente sulla potenza, un brano senza fronzoli rispetto agli altri ("At the back of beyond"), è inframmezzato dalla pacata "The poem" (praticamente affidata soltanto alla voce di Mario) e dalla bellissima ballata pianistica "Return to you" (ascoltatela e riuscirete a capire il mio entusiasmo nell'esaltare la bravura della Ferlaak), si fa oscuro con "Through my eyes" e disegna paesaggi esotici grazie "Flow this desert". L'unica caduta, per quanto mi riguarda, è rappresentata dalla poco entusiasmante "My dark side home", posta esattamente a metà tracklist, forse per spezzare l'enfasi degli altri brani, tutti assestati su standard qualitativi medio-alti. A livello di tematiche, scordatevi le infantili liriche fantasy in stile Rhapsody che l'artwork e il monicker potrebbero suggerire. Con caparbietà vengono infatti dischiusi bucolici temi amorosi, senza dimenticarsi di quel tocco d'ingenuità e di quel soffio malinconico che tanto appagano gli animi dei metallari più romantici.
In attesa che le mele maturino, e auspicando che col prossimo album i Nightwish si ricordino di essere dei grandi musicisti e non dei patetici protagonisti di un reality show in stile heavy metal, provate a dare una possibilità anche a questi Visions Of Atlantis, ormai a pochi passi dall'eccellenza. Non ne rimarrete delusi.
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