Come è cambiata Napoli…stritolata dalle spire di un’Idra a cui anche Eracle soccombe. Nel 1954 il rione Sanità, dove venne girata gran parte del film, seppur già infetto dai germi del malaffare si poteva ancora definire come un quartiere imbevuto di ogni fattore garante della napoletanità. Forse, come avrebbe detto Luciano De Crescenzo qualche decennio dopo, l’ultima speranza per la razza umana. Oggi, gli scorci del quartiere mostrano poche differenze da Baghdad, se non fosse per i palazzi sconquassati dalle bombe in quest’ultima. Di oro ne è rimasto ben poco e quella quantità trascurabile che giace oggi tra malavita e indifferenza, tenta di resistere con eroico coraggio.
Vittorio De Sica, su una formidabile idea di Cesare Zavattini ricavata da una raccolta di racconti di Giuseppe Marotta, ci offre, una radiografia limpida seppur variopinta, rigogliosa, seppur nostalgica, inimitabile, seppur dilaniata del “ventre” di Napoli. Grazie, Matilde.
Prodotta da Carlo Ponti e Dino De Laureentis (chissà perché tra le protagoniste figurano Fantoni “Ph” Cesira e Silvana Mangano, mah…), audace sia nella fotografia con un meraviglioso bianco e nero (Carlo Montuori), che nel montaggio (Eraldo Da Roma), l’opera si divide in sei episodi che in qualche modo rappresentano i simboli, i vittoriosi vessilli, gli splendenti amuleti di quella città che oggi è, purtroppo, praticamente scomparsa.
Il guappo. Un Totò evidenziato da una bravura fuori dall'ordinario, indossa la marsina e relativi accessori di sapore borbonico del “Pazzariello”, ovvero colui che provvede all’inaugurazione, con tanto di annuncio in pompa magna ed orchestrina di rinforzo, di una nuova bottega. Una spalla offerta per piangere la vedovanza si tramuta nell’usurpazione degli affetti materiali e non, ad opera di un capintesta del rione. Sarà un’indigestione scambiata per infarto a dare il coraggio, al povero pazzariello, di umiliare e sradicare l’erba maligna dalla propria casa. In questo episodio, il valore aggiunto è dato da due caratteristi eccezionali: Pasquale Cennamo e Nino Vingelli.
Pizze a credito. Sophia Loren è la avvenente et/aut infedele moglie di un pizzaiolo geloso ed impulsivo. Un anello con smeraldo dimenticato nel covo dell’adulterio, solletica i nervi del marito che pur di ritrovare il costosissimo impegno d’amore non si ferma neanche di fronte al dolore teatrale e coccodrillesco di un uomo fresco di vedovanza. Giacomo Furia supera sé stesso e Paolo Stoppa trasforma magistralmente in farsa ciò che dovrebbe essere un contesto drammatico. Nella claque dei consolatori, la bravissima Tecla Scarano e un giovane Gigi Reder, lieve vittima di uno specchio infranto ben prima di diventare il popolarissimo ragionier Filini…
Funeralino. La non blasonata (forse la migliore) Teresa De Vita, veste i panni di una donna che ha perduto il proprio figlio. Agendo quasi per inerzia esegue le ultime volontà di madre durante il piccolo, fiabesco, corteo funebre. All’angelo che sta per spiccare il volo dedica, con la malcelata titubanza del cocchiere, il passaggio “sulla via Grande”, ossia il lungomare Caracciolo all’epoca non ancora stuprato dal traffico veicolare. Oggi sarebbe impensabile. Allo scarno fiumiciattolo di sofferenti affluiscono i compagni di scuola scortati dalle insegnanti. Basteranno dei confetti seminati sotto lo sguardo del Castel dell’Ovo a generare il cinismo mica tanto ingenuo degli scolaretti, con il fattivo ausilio di alcuni figli della strada spuntati per l’occasione. Quando i confetti abbandoneranno l’asfalto per le mani sporche degli scugnizzi, spunteranno le lacrime, brucianti, di chi non ha più un pezzo d’esistenza. Giudicato “pessimista” dai moralisti di una certa critica, l’episodio, molto commovente, venne tagliato in alcune versioni della pellicola.
I giocatori. De Sica, un conte posseduto dal demone del gioco (non molto lontano dalla realtà), si autodirige per una scoppiettante partita a scopa contro un bambino, figlio del portiere del palazzo di cui è proprietario. Il conte si reputa un giocatore provetto ma sia la moglie che il governante conoscono sia il proprio pollo che le sue millanterie, negandogli quindi ogni fonte di posta da giocare. Alla luce fresca di un solaio il conte, ritualmente, perde occhiali, cappotto, palazzo e tenuta di Sparanise. Pierino Bilancioni, il bambino, è alla sua unica apparizione cinematografica. Ha poi gestito una gelateria di successo ed è scomparso nel 2000.
Teresa. Silvana Mangano è una prostituta di buon cuore che lascia la casa di tolleranza per cadere tra le braccia di un uomo che non la ama per niente. Quelle braccia a cui si abbandona sono di cartapesta e presto capisce di essere stata sedotta dalle parole di un abbietto intermediario e dalle foto di un “coniuge” fasullo. In un contesto difficile da sopportare, tra una cerimonia e buffet abilmente costruiti per l’occasione, Teresa arruffa quei pochi stracci racimolati in una vita e prova ad allontanarsi verso un destino ormai incerto. Tornerà. Tra le comparse, ad incitare la Mangano in un canto popolare romanesco, le sorelle Nunzia e Nuccia Fumo. Saranno le signorine Finizio nel “Bellavista” cinematografico di De Crescenzo. Forse l'episodio che più si scosta dalla metrica generale della pellicola ma non il meno bello. La Mangano dimostra di essere migliore della Loren. Altrochè.
Il professore. C’è qualcosa da dire su Eduardo De Filippo? Don Ersilio Miccio, con la saggezza di un veterano, dispensa consigli dal basso del suo “basso”. Con qualche centinaio di lire si può prolungare la licenza con un febbrone, trovare un epitaffio per enfatizzare l’effigie della Madonna e soprattutto, sotterrare senza alcun ricorso alla violenza, l’albagia fastidiosa di un nobilone locale. Il pernacchio è un arte e saranno in tre o quattro a praticarlo in tutta Napoli e quindi in tutto il mondo. Quello di Eduardo viene eseguito con cervello e passione e raggiungerà senza dubbio l’obiettivo previsto. Questo episodio invece, venne tagliato per la versione francese: i cuginetti al di sopra dei Pirenei non avrebbero capito la differenza tra “pernacchio” e “pernacchia”. Mais v’afan cul!
Da non dimenticare la colonna sonora del maestro Alessandro Cicognini, che fonde sapientemente un motivo dal pittoresco sapore delle danze popolari partenopee ad una ballata sentimentale. Nominato per la Palma d’Oro, riuscirà ad aggiudicarsi solo due Nastri d’Argento. Peccato.
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