Nel 1952 Vittorio De Sica dovette subire un'aspra critica da parte dell'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti per la realizzazione del film Umberto D. (scritto e sceneggiato da Cesare Zavattini). La colpa di De Sica era quella di dare una rappresentazione sbagliata dell'Italia all'estero e di aver reso "un pessimo servizio al proprio paese". Non negando l'esistenza del male, il Divo Giulio, proponeva sostanzialmente di lavare i panni sporchi in famiglia, voltando miseramente lo sguardo dall'altra parte di fronte alle tragedie umane della giovane Repubblica.
Per fortuna, né De Sica né gli altri registi italiani si curarono minimamente di tale giudizio e Umberto D. può essere pacificamente riconosciuto come un capolavoro del neorealismo e patrimonio del cinema mondiale, sebbene il regista dovette fare i conti con un pessimo riscontro di pubblico, ma non di critica.
La lucidità con la quale De Sica tratteggia la vita di Umberdo Domenico Ferrari (interpretato dal professore e glottologo Carlo Battisti, alla sua unica prova cinematografica), ex funzionario del ministero dei lavori pubblici ora in pensione e alle prese con le ristrettezze economiche e i debiti con la padrona di casa, ci mostrano una parte di quell'Italia che non funzionava, senza slanci retorici e/o sentimentalismi. Umberto D. è una persona colta, istruita, profondamente intelligente, ma soprattutto dotata di un'immarcescibile dignità e di uno spiccato senso dell'umanità, riscontrabile nell'amicizia con i due unici esseri che gli dimostrano dell'affetto sincero: il suo inseparabile cagnolino Flaik e Maria (interpretata da Maria Pia Casillo), la serva di casa incinta e con il dubbio di chi sia il suo vero padre, se un militare fiorentino o uno napoletano (altra triste pagina della società italiana del tempo appena tratteggiato, ma che potrebbe costituire un film autonomo e separato). Se a questa lucidità si unisce anche una incontestabile maestria dal punto di vista tecnico ed una scelta estetica quanto mai azzeccata, ecco che Umberto D. alla fine risulta un film asciutto e crudo, dove l'occhio del regista rappresenta soltanto un mezzo di comunicazione tra la narrazione e lo spettatore. Un'occhio costantemente presente, soprattutto nelle piccole azioni quotidiane, ma perennemente distaccato e imparziale, seppur offra una chiave di lettura naturalmente alternativa alla pubblica percezione dell'epoca, con buona pace per Andreotti il censore.
Vittorio De Sica offre uno scenario amaro, ma non apocalittico, grazie allo spiazzamento che riserva allo spettatore nel finale. Un'amarezza di fondo che, però, riesce a far spazio anche a sentimenti e sensazioni positive, che consolano il pubblico che al contempo deve rimanere insensibile di fronte ad una tragedia - in termini di vite umane - che non si è consumata. Quello di De Sica può esser definito un avvertimento: oggi il carattere di Umberto D., unito al destino benevolo, ha scongiurato il peggio, ma se le cose non migliorano, domani potrebbe accadere quello che nessuno vorrebbe.
Umberto D. rappresenta una lezione di cinema che potrebbe, anzi può e deve essere ancora attuale: un monito per un cinema che non si deve piegare alla realtà ovattata e scintillante propagandata soprattutto dalla televisione nostrana. Un film, in pratica, che salvaguardia e rintuzza la nostra coscienza sociale.

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