Rotolando per le vie.
Balzellando, zigzagando, incespicando e calpestando.
Rotolando per le vie.
Nume tutelare degli scappati di casa, Sommo Sacerdote degli inveterati perdigiorno, stella polare di tutti gli sciamannati capitani di ventura che navigano senza meta!
Pallina della roulette! Maestra di vita!
Alla tua filosofia mi affido, al tuo rotolare, ora fluido ora a scatti, che porta con sé tutto il senso, l’unico possibile.
La posta in palio? Irrilevante. Il numero nel quale mi incasellerò? Insignificante.
L’importante è rotolare. Rotolare per le vie ascoltando i miei pensieri.
Senza forma, senza direzione, senza evoluzione.
Elastici accordi blu-cobalto da night club di periferia, una pozza languida e soffusa di melodie appena accennate, e poi passate, e ripassate e ancora trapassate dall’aroma inebriante di spezie glitch.
Questi sono i miei pensieri, questa è l’ora dell’unico pezzo del disco: la memoria di mio nonno che d’un tratto si avvita sulle spirali di fumo di un sigaro appena acceso, le sinuose posture dei Pan American che sono cadenzate dai palpiti di un dub dimesso, l’importo annichilente della bolletta del gas che scompare improvvisamente nel luccichìo dello sguardo di una sconosciuta, qualcosa di un trip-hop al doppio caramello che è masticato in continuazione da una miriade di rifiniture concrete.
C’è forse qualcosa di Basinski in questo disco? Forse, ma a ben guardare…
…L’elettronica ripetitiva, le storture glitch di Delay non si dipanano come un Requiem post-moderno con la processione di nastri mandati in loop che nascono e muoiono in un istante. In Delay i frammenti svolazzano, si nascondono e poi ritornano in un’esigenza spasmodica di reciproca comunicazione.
C’è piuttosto qualcosa dell’arcano, dell’elusivo gesto della bufera che scompiglia e fa danzare i fiocchi di neve. Sembrano simili, ma ognuno è diverso, e ognuno si incastona e si accavalla e balla il valzer o il twist con i suoi fratelli.
Sono schegge elettroniche che parlano tra loro in una lingua sbrecciata, criptica e intima: come gli schizzi delle onde che si infrangono sugli scogli, come i pensieri che danzano per la testa mentre si passeggia per le vie.
Ma i pensieri sono forse “Anima”?
No!
Rifuggo Cartesio e il suo fallace “Penso dunque sono”.
Rifuggo con Valéry “Lo sguardo di Medusa del verbo essere”: io non sono, io penso.
E per esserci davvero, spero che il croupier che oggi mi ha lanciato mi faccia infine planare su una casella speciale, dove qualunque cosa accada mi posso sentire per qualche tempo pacificato: quella in cui le mie pupille affondano in quelle della mia gatta.
Carico i commenti... con calma