E così mi trovavo sull'orlo del suicido, quando, vagando per una terribile ed umida serata d'agosto, m'imbattei in “Human Antithesis”: erano proprio vividi i segnali della Fine, da tempo non acquistavo più metal, se non sporadicamente e al prezzo di gravosi sensi di colpa, e per questo mi avventai sull'allora ultima opera dei romani Void of Silence, come il condannato a morte che si concede l'ultimo sfizio, l'ultimo pasto da consumarsi con rassegnata avidità.
Ma le cose presero un'altra piega, i giorni del Buio trascorsero, ed io, immerso e barcollante nell'abisso, ripresi a salire la china, mano nella mano con Zara e Conforti, giorno dopo giorno, trascinato faticosamente, poi sempre più solertemente, dalle confortevoli spire della loro musica. L'Arte, appresi, per quanto decadente, per quanto vuota di luce, per quanto vuota di speranza e pregna di disincanto, è Vita. E Vita fu per me la musica dei Void of Silence, che seppe entusiasmarmi ancora una volta, per quei strani giochi del Destino (del Caso, dell'Umana Idiozia) che nessuno sa spiegare.
Sono passati esattamente sei anni, forse quella sera era il 4 agosto, chi se lo ricorda, ed oggi la mia vita è parecchio migliorata. Con la calma di un procione, mi posso quindi approcciare ad analizzare questa attesa ultima opera dei Void of Silence, di cui non avevo sentito la mancanza, ma di cui adesso non so fare a meno.
Ho sempre difficoltà ad avere una visione di sintesi per album che poco ho ascoltato e che non sento di aver adeguatamente metabolizzato. Ma questa recensione la volevo scrivere io, per l'importanza che la band ha ricoperto in certi frangenti della mia esistenza.
In verità rimango legato principalmente a “Human Antithesis”, ma scavando nel passato (e scoprendo adesso il presente), posso ritenere a ragione che con i suoi buoni quattro album la band di Ivan Zara e Riccardo Conforti si possa tranquillamente candidare fra le migliori realtà metal che siano mai fiorite dall'italico terreno. Ma resta la “luce” (si fa per dire) emanata da un lavoro enorme come “Human Antithesis”, che si fa letteralmente terra bruciata attorno: un album che seppe spazzare con un sol soffio il pur buon passato, e che, almeno ad oggi, ritengo getti un'ombra importante sul futuro.
Con “The Grave of Civilization” i Nostri si mantengono a dei livelli eccelsi, ma non ce la fanno a bissare il capolavoro che hanno saputo sfornare nell'oramai lontano 2004. “The Grave of Civilization” è inferiore in tutto al suo predecessore: è inferiore concettualmente, è inferiore nei suoni, è inferiore nel come vengono sviluppate le idee, nel come viene costruita l'identità delle singole composizioni, è inferiore semplicemente perché non vi è più Alan Nemtheanga. A questo giro(ne), il vocalist prescelto dall'inossidabile duo è Brooke Johnson (ugola degli Axis of Perdition), forse il meno azzeccato fra tutti coloro che hanno prestato l'ugola all'interno del progetto, anche meno azzeccato del rancido e putrefatto Fabban, che aveva pur donato, nonostante le sue vistose imperfezioni canore, un'aura malvagia e malata alle funeree movenze della band. Al Nemtheanga, tetro cantore di indicibili afflizioni, non gli lega nemmeno le scarpe.
The Grave of Civilization” è quindi inferiore a “Human Antithesi”. O forse semplicemente diverso. O forse necessita ancora di un po' di tempo per essere capito.
Come dicevo in apertura, mi manca una netta visione d'insieme, ma due parole (si fa per dire) le posso tranquillamente spendere: a scapito della copertina (a mio parere, fra le più belle mai visionate nella storia del rock), costruita su gelide architetture neofasciste, non ci troviamo innanzi ad un cinico e splendente monumento di tristezza quale era “Human Antithesis”, bensì ad un sound liquido ed impalpabile, ad un lento ed inarrestabile torrente di estatiche visioni. Il sublime doom apocalittico dei Void of Silence si scrolla di dosso definitivamente le ultime scorie black metal (rinvenibile ancora in qualche fraseggio chitarristico del sempre valido Ivan Zara) e osa rinunciare alla massiccia dose di campionamenti industriali che da sempre ha caratterizzato la band romana. Il doom apocalittico dei Void of Silence finisce per assestarsi a metà strada fra le indolenti marce dei padrini My Dying Bride e il pathos drammaturgico degli Arcturus meno ironici, ovviamente inzuppati nel Niente di un dark-ambient d'autore da sempre marca di fabbrica della band.
E così le chitarre bavose di Ivan Zara si adagiano sulle imponenti trame tastieristiche del sempre immenso Riccardo Conforti. E su esse si adagia la voce pulita di Johnson, che può spaziare in lungo ed in largo (seppur smarrendosi a tratti) su composizioni mediamente assestate sopra i dieci minuti. Perché i Void of Silence non amano andar di fretta. E non lo dico perché i Void of Silence ci mettono sei anni per sfornare il loro ultimo lavoro. Non lo dico perché l'album, con i suoi soli sei pezzi (comprensivi perfino di una breve introduzione e di un altrettanto breve conclusione), ha l'ardire di perdurare per più di un'ora abbondante. Lo dico perché quale altro gruppo avrebbe fatto iniziare il loro cantante a blaterare all'ottavo minuto di una loro composizione? (Cosa che succede in “Apt Epitah”, terza traccia dell'album!). Lo dico, infine, perché “The Grave of Civilization” non è proprio l'album da toccata e fuga, da ascoltarsi sull'I-pod nei ritagli di tempi! “The Grave of Civilization” necessita di un letto e molto, molto tempo. Prendetevi quindi le ferie e gettatevi nel suo ascolto!
"Prelude to the Death of Hope” (un titolo, un programma) introduce perfettamente nel mood dell'opera: chitarre distorte, muri di tastiere pesanti tonnellate, il canto gregoriano di un coro di monaci stralunati intenti a tessere il loro ultimo richiamo ai fedeli mentre la cattedrale cade a pezzi sopra alle loro teste, colonne e capitelli franano e il pavimento lastricato sotto di loro sembra sprofondare in abissi catatonici (scappate bastardi, scappate!). Tutto ciò ci invita a percorrere i meandri contorti di un album che ci suona come la perfetta colonna sonora della fine del mondo: non un mondo mistico, spirituale, umano, ma un mondo concreto, fatto di cemento, palazzi, strade dissestate, rifiuti e macerie.
Il delirante canto di un muezzin apre la monumentale title-track, diciassette minuti scoscesi di un precipizio emotivo in cui la sensazione è quella tragica, tesa, dell'atto di sprofondare. Il pur buono Johnson si fa scivolare in una caduta libera in cui i frammenti della civiltà precipitano insieme ad esso in un baratro apparentemente senza fine. E in esso precipitano le chitarre pastose di Zara, volteggianti in pachidermici cerchi concentrici, come foglie incatramate che oscillano nel Niente di un autunno da incubo che le tastiere cinematiche del fuoriclasse Conforti ricreano con minuziosa elasticità: orchestrazioni che salgono e scendono nella nebbia mentre il riffing arrugginito rimane aderente al terreno, fino a scavare profondi solchi come le punte di un compasso metafisico.
Nella già citata “Apt Epitah” (dodici minuti) si compie una vera jam session dell'abisso, le chitarre vorticose di lanciano in sfrigolanti turbini di nero metallo; la batteria non è più un orologio che lentamente scandisce il trascorrere di una sofferenza lunga secoli, se non millenni: le percussioni si fanno più incespicanti, caracollano e sembrano affogare nella melma di sangue ed asfalto che viene vomitata dagli amplificatori dei Nostri. Il canto di Johnson si fa vivo molto tardi, per subito essere nuovamente sepolto nel mantra sabbathiano che prosegue inesorabilmente per la sua strada, spianando tutto, vite umane, cadaveri, scheletri di strutture fatiscenti. Ce n'è di roba in sessantadue minuti di musica: affossanti momenti di gelida elettronica, acustiche perlustrazioni del vuoto, rassegnate ri-partenze verso il niente.
In tutto questo, non sono pervenuti quegli elementi folk-apocalittici che avevamo amato in passato (salvo nel brano conclusivo, aperto da un arpeggio che farà certamente la gioia dei fan dei Death in June). Ma il mood apocalittico rimane, eccome!, basti ascoltare l'incipit di “Temple of Stagnation” (dieci minuti!), aperta dalle grida impavide e surreali di Johnson, che sembra agitarsi e combattere contro una tempesta, come se i Void of Silence non suonassero singoli strumenti, ma un unico, maledetto strumento, votato alla sola ed esclusiva dispersione di suoni privi di gioia e speranza. Senza una struttura razionale capace di arginare il sopraggiungere delle emozioni. E se i Void of Silence si evolvono, si evolvono proprio nella volontà di definire un unico suono in cui le varie parti non vanno che a concorrere ad un micidiale effetto d'insieme: riff marci, orchestrazioni pastose, umbratili cavalcate ritratte al rallentatore, una voce che sembra uscire dal megafono dell'ultimo uomo sulla terra; tutto si mescola in un vischioso torrente in cui è possibile veder galleggiare, qua e là, gli incrinati tasti d'avorio di un pianoforte. Perché se i Void of Silence si evolvono, si evolvono nel saper non dire mai la parole Fine, nel non saper mai porre una fine alla caduta, poiché il momento successivo di ogni composizione segna un'altra terribile tacca di una inesorabile caduta.
"None Shall More” (quindici minuti!) si apre con la quiete di arpeggi di chitarra, e quasi pare di sostare per un attimo sulla superficie piana di uno scalino, ma è la sensazione di un istante, poiché i Void of Silence di lì a poco riverseranno altra pece sopra il nostro corpo rotolante, un corpo oramai fratturato e privo d'ossa, un involucro di carne e sentimenti che, quasi liquefatto, franerà come una cascata disorganica sui gradini a chiocciola di un pozzo senza fondo.
Ma, anche fisicamente, la cosa non poteva durare all'infinito, per questo la parola Fine ce la mette il breve outro “Empthy Echo” che, lungi dal lasciarci riposare nelle nostre ferite, ci condurrà verso una infinita velleitaria conclusione tramite una tragica dissolvenza. Verso il Niente. O verso il Principio.
Per questo, nonostante tutto, viene voglia di premere play e continuare a cadere...
Sei anni c'avete messo, figli di puttana!, ma per lavori come questo ne aspetto anche altri dodici!
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