"Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te."

Il Vuoto del Silenzio nasce da una riflessione. A cui ne segue un'altra, e un'altra, ancora, ancora e ancora… l'Io si chiede perché. Perché il mondo, perché la vita; si chiede soprattutto perché QUESTO terribile mondo, QUESTA terribile vita. La risposta ovviamente non esiste e questa assenza in cui si rivolge la mente, che cerca invano un significato, rappresenta il Vuoto, così metafisico nella sua essenza, così tremendamente reale nella sua tangibilità.

Questo Vuoto potrebbe essere davvero il luogo del Silenzio, pace, calma, traguardo dell'esistenza; ma non siamo nell'universo buddista, che naviga schivando ogni possibile risposta a domande che non intende porre: qui siamo in un'ottica squisitamente umana, occidentale: i quesiti senza soluzione bruciano, mordono la coscienza, urlano. Il Silenzio è un miraggio perché questo genera subito visoni, rumori, Caos. E la musica dei Void Of Silence è la materializzazione di questi incubi.

Questa introduzione per spiegare la filosofia dietro il progetto: che parte da radici terrene, molto umane a dire il vero, per trascendere in seguito ogni umanità, dando vita ad un universo sconvolto da immagini funeste, nient'altro che lo specchio di questa realtà. Le immagini terribili dietro la musica del gruppo non sono altro se non l'apparente follia dell'umanità. Ivan Zara e Riccardo Conforti formano nel 1998 il primo nucleo degli ostiensi VOS, che non arriverà alla pubblicazione di un disco se non nel 2001, con questo Toward The Dusk. Ad essi si aggiunge il vocalist Malfeitor Fabban, già mente dietro i romani Aborym.

La musica che esce dall'incontro di queste tre menti è la perfetta sintesi delle loro personalità: il lato "metallico" del chitarrista Ivan Zara, quello elettronico del batterista Riccardo Conforti, ed infine Malfeitor Fabban, il vertice "estremo" del triangolo.

Toward The Dusk è il primo fulllenght della loro discografia, ed anche il capitolo meno conosciuto del gruppo, penalizzato dalla mancata pubblicità offerta dalla Nocturnal Music. Dovrebbe anche essere il primo capitolo della trilogia di cui è composta per ora tutta la produzione del gruppo, ma le notizie percepibili dalla rete si concentrano sugli altri due capitoli, mantenendo questo nell'ombra. Trilogia che dovrebbe affrontare un'ardua rivisitazione dell'ultima Guerra Mondiale, attraverso lo scoppio del conflitto (il secondo Criteria Ov 666) ed il dopoguerra (l'ultimo Human Anthitesis); questo primo disco invece credo dovrebbe rappresentare l'imminenza del conflitto, gli attimi di attesa prima del dramma (ma i testi non sono mai stati divulgati).

La proposta musicale si sposa ben con gli intenti del gruppo, espressi dall'artwork e dal monicker: un doom freddissimo, lento e ripetitivo, sul quale poggiano campionamenti, parti tastieristiche e sintetizzatori. La parte metallica è affidata soprattutto al riffing di Ivan Zara, di scuola albionica (My Dying Bride e Anathema), lontano quindi dalla pesantezza del Fueneral; l'effetto finale è comunque più opprimente e claustrofobico di ogni tentativo precedente, grazie ad alcune soluzioni che staccano nettamente i Void Of Silence da ogni facile classificazione.

"Elemental Pain" è un po' il manifesto di questo sound: accordi plumbei, ritmi rallentati, effetti e campionamenti al limite dell'industriale; su questi si stagliano le vocals di Fabban, più black-oriented, dividendosi tra rauchi sussurri, frasi bisbigliate e feroce screaming: il risultato forma un "piacevole" contrasto con il growl privilegiato dal canonico doom. In buona parte delle canzoni a questo cantato si sostituisce o somma l'uso di cori, perlopiù ad una voce (forse lo stesso Fabban), macabra parodia di quelli gregoriani.

Anche se i ritmi sono costantemente lenti il disco si lascia ascoltare grazie alla varietà dei pezzi, supportati da una produzione cristallina che enfatizza i suoni e l'elettronica; l'atmosfera dei brani tradisce proprio quel senso di dolorosa attesa, che ricopre di angoscia ogni singola nota: il disco non esplode mai in catartiche accelerazioni, passaggi ambient che stemperino l'agonia. È un lento procedere verso una fine sempre più consapevole. Lentamente. Lentamente.

Faranno di meglio con i dischi seguenti, ma certo il massimo non glielo toglie nessuno. Voto: 9

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